sabato 5 aprile 2014

I giorni dell'abbandono. L'elaborazione del lutto amoroso.

-Di che parla questo libro che non ti vogliono pubblicare? 
-Parla di due persone che non stanno più insieme. Una soffre, l'altra no. Però forse quello che racconta veramente è che non bisogna aver paura di lasciare. Perché tutto quello che conta, non ci lascia mai, anche quando non vogliamo.
                                                     (un dialogo dal film Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek)


Due persone non stanno più insieme. Una soffre, l'altra no. Una va via, l'altra resta sospesa, immobile, smarrita.
Poche esperienze nella vita lasciano dentro un vuoto come l'abbandono da parte di una persona che amiamo. Un vuoto che sembra incolmabile, che fa male, che toglie il fiato, che non fa dormire.
L'altro va via, e la nostra vita sembra non avere più senso. Cosa c'è dopo l'addio? Smarrimento, dolore, paura, senso di solitudine, disperazione? Ogni storia d'amore è unica, così come lo è ogni addio, ma le tappe che attraversiamo sono spesso simili, e riconoscerle potrebbe aiutarci a comprendere meglio cosa sta avvenendo in noi.

All'inizio ci fu il dolore


Il senso di smarrimento iniziale, di incredulità, quasi di negazione di ciò che sta avvenendo, lascia presto spazio al dolore. Sarà il nostro compagno per molto tempo, ci accompagnerà tutti i giorni e ogni tentativo di seminarlo lungo il cammino fallirà.
Il dolore è costante, intenso, è localizzato proprio lì, nel petto, sullo stomaco. E' come un peso, come una morsa, non ci fa respirare. L'idea che la persona amata sia andata via, che non riceveremo più una sua telefonata, che l'ultimo nostro abbraccio è stato davvero l'ultimo, ci lascia frastornati.
Una delle prime reazioni è parlarne, parlarne e poi ancora parlarne: interminabili telefonate all'amico del cuore, giornate intere in cui l'unico argomento affrontato è la rottura, disperate richieste di aiuto.
Elaborare l'accaduto farà solo bene, ci permetterà di mettere a fuoco l'abbandono, distanziandocene per osservarlo meglio. Gli amici in questa fase ci possono aiutare tantissimo, ma la maggior parte del lavoro del superare il dolore lo faremo da soli...ma al momento giusto.


La speranza è l'ultima a morire, purtroppo


E' questa la fase in cui, disperatamente, ancora facciamo ogni tentativo possibile per riportare l'altro da noi. E' ancora viva la speranza che cambi idea, che se ne penta, che torni sui suoi passi. Fantastichiamo quel momento, lo desideriamo con tutto il cuore, ci aggrappiamo a questa speranza con le unghie...e questo non fa altro che prolungare la sofferenza.
I tentativi di restare in contatto, i messaggi inviati, le telefonate fatte, le lettere spedite, i regali, sono gesti che alleviano la sofferenza per poco: permettono un piccolo contatto con l'altro, uno sfiorarsi per qualche secondo, richiamando la sua attenzione su di noi, e nascondono la speranza che possa pentirsi della decisione presa.
Forse la cosa più difficile sarà dire a se stessi "Non tornerà.".
E' una verità che non vogliamo accettare, ma abbandonare la speranza di un suo ritorno sarà uno dei passi più importanti più importanti per distaccarci dall'altro.


Ma la colpa di chi è?


Si giunge poi alla fatidica domanda: ma è colpa mia o sua? 
La ricerca di un responsabile è una tappa quasi obbligata. Nelle primissime fasi, in genere, non abbiamo dubbi: è colpa nostra, solo nostra. Abbiamo sbagliato (o "siamo" sbagliati), la persona che amiamo appare ancora magnifica ai nostri occhi, perfetta, adorabile. Tornasse indietro, la riprenderemmo subito con noi. Siamo noi che dobbiamo farci perdonare.
Ci vorrà del tempo per vedere le cose con la giusta lucidità e comprendere che la responsabilità non è mai di uno solo dei due, e che forse possiamo anche aver sbagliato, ma non saremo mai sbagliati.


La "sana" rabbia


L'analisi delle responsabilità ci porterà col tempo ad ammettere che anche l'altro ha delle colpe. Insomma, abbiamo sbagliato entrambi. C'è una fase in cui la rabbia emerge con forza, tanto da ribaltare la distribuzione delle responsabilità della fase precedente: ora, all'improvviso, la colpa è tutta dell'altro/a e noi siamo le vittime della cattiveria altrui. 
I difetti che sembravano essere così sfumati fino ad ora ricompaiono più intollerabili che mai. Lui/lei non era perfetto/a, alcuni suoi comportamenti sono imperdonabili e una parte di noi inizia ad odiarlo/a. 
Ma è un odio che non cancella l'amore, ma, anzi, gli cresce accanto, rendendo i sentimenti contraddittori e confusi.
In questa fase vorremmo vederlo soffrire, venire a sapere che sta male, che soffre, che sta passando un periodo orrendo, che tutto nella sua vita va a rotoli. Vorremmo sentirci dire da amici in comune che è solo come un cane, triste, depresso. Ci sentiremmo meglio, perché significherebbe condividere il dolore con l'altro, sentirci meno strani e patetici. 
Sapere che sta bene e che magari sta iniziando una nuova frequentazione, o addirittura una relazione vera e propria, potrebbe avere un impatto devastante su di noi.
Allora parleremo male di lui/lei, ci sfogheremo con gli amici, descriveremo l'altro come un essere senza anima né cuore, una bestia orrenda che non merita niente, che non meritava noi, che non meritava il nostro amore.
Ma siamo ancora innamorati di questa bestia senza cuore, e il percorso da fare è ancora lungo.
La rabbia non spegne l'amore. 


Guardare in faccia la verità: l'accettazione


L'odio non ci impedisce di amare. Cosa, allora, ci permetterà di andare avanti?
Il percorso che abbiamo intrapreso, se siamo fortunati, ci porterà all'accettazione.
Lungi dall'essere meno dolorosa delle altri fasi, l'accettazione comporta un atto di coraggio e di forza: significa lasciare andare l'altro, vederlo scivolare via dalle nostre mani come fosse sabbia, senza trattenerlo, dirgli addio, accettare il posto vuoto che ha lasciato.
Il coraggio sta nell'accettare che le persone a volte non stanno insieme per sempre, che possono smettere di amarsi. Accettare significa avere la forza di dirci che lui/lei non ci ama più, che non ci vuole, che preferisce stare senza di noi, per quanto queste parole siano terribili e ancora facciano male.
Accettazione significa capire che la storia è finita perché non poteva continuare, ma che questo non significa che nessuno ci amerà più, che siamo sbagliati, che abbiamo qualcosa che non va.
E' la fase in cui è utile guardarsi dentro ed essere soddisfatti di noi: abbiamo attraversato la negazione, il dolore, la rabbia, e ora eccoci qui, più forti di prima, nelle fasi finali di questo percorso. Siamo cresciuti, siamo maturati, abbiamo affrontato i nostri demoni, non siamo scappati davanti alla sofferenza.
Abbiamo pianto tutte le lacrime che dovevamo piangere (o forse ne piangeremo ancora altre), ma siamo ancora in piedi. Ricordate il dolore dei primi giorni? Pensavate di non riuscire a rialzarvi. Ricordate di aver avuto paura di morire? Dicevate "non ce la farò mai". Beh, ce l'avete fatta. Non siete morti, siete vivi, siete in piedi.

E ora dovete accettare quello che è successo.
Accettare, dire addio, perdonare forse.
Accettarsi, essere orgogliosi di voi, ricominciare daccapo, riprendere la vostra vita.

Il dolore vi accompagnerà ancora per un po': potrà essere più o meno intenso a seconda delle attività in cui siete impegnati, dai vostri tentativi di distrarvi, ma vi colpirà ad ondate, come quando siamo seduti sul bagnasciuga e le nostre gambe vengono ricoperte all'improvviso da una lingua di mare e di spuma, che velocemente si ritira, per poi tornare.
Alla radio passa una canzone che ascoltavamo insieme, e siamo colpiti da un'ondata. Troviamo una nostra foto in un cassetto, e siamo colpiti da un'ondata. Riconosciamo un posto dove siamo stati insieme, e siamo colpiti da un'altra ondata.
Ma le ondate arrivano e si ritirano.
Piano piano, saranno sempre più deboli, sempre meno frequenti. Poi le onde si placheranno, lentamente. Abbiate fiducia. 
Resterete voi, un po' cambiati, più maturi, più forti, e davanti a voi un mare finalmente calmo.







 


                                                                             

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