sabato 26 aprile 2014

La via più breve per l'infelicità: le doverizzazioni.

Pochi termini presenti nel nostro vocabolario sono pericolosi quanto la parola devo.
Nel corso delle nostre giornate questa parola emerge più volte in maniera quasi automatica, del tutto inconsapevolmente.
Devo fare bella figura. 
Non devo lasciare che gli altri si prendano gioco di me. 
Una donna deve farsi rispettare. Non deve permettere agli uomini di usarla.
Le persone non devono infastidirmi.
Si chiamano doverizzazioni: sono delle affermazioni che includono un imperativo o un'idea su come noi o gli altri dovremmo comportarci e delle previsioni catastrofiche sulle conseguenze che si verificherebbero se tali aspettative fossero insoddisfatte.
Devo fare un buon lavoro. Non devo sbagliare. Sarebbe davvero terribile se succedesse!
Le doverizzazioni sono state a lungo indagate da Albert Ellis, ideatore della terapia razionale-emotiva (RET). Le doverizzazioni e la RET sono l'argomento di cui parliamo oggi.


Emozioni e pensieri: processi distinti o sovrapposti?


Comunemente le emozioni e i pensieri sono considerati due processi assolutamente contrapposti: da una parte c'è la spontaneità e l'immediatezza della dimensione emotiva, dall'altra la mente razionale con le sue produzioni.

Albert Ellis nel 1955 ideò e sviluppò la terapia razionale-emotiva (RET), definita così proprio perché basata sull'assunto secondo cui pensiero e emozioni non sono processi distinti, ma sovrapposti, e per certi versi identici. 
"Il tema centrale della RET è che l'uomo è un animale singolarmente razionale, ma anche singolarmente irrazionale, che i suoi disturbi emotivi o psicologici sono ampiamente il prodotto dei suoi pensieri illogici o irrazionali, e che egli può liberarsi di quasi tutti i suoi disturbi, infelicità e inefficienza emotivi o mentali se impara a massimizzare i suoi pensieri razionali e a minimizzare quelli irrazionali." (Ellis 1962)
In sintesi, secondo Ellis, sarebbe il modo irrazionale di pensare a determinare gli stati emotivi spiacevoli. L'infelicità e i disturbi emotivi sono il prodotto non degli eventi in sé, ma del modo in cui l'individuo li interpreta. Le idee irrazionali portano l'uomo a sviluppare ansie, sensi di colpa, inibizioni, perdita di controllo e profonda insoddisfazione. Questo, a sua volta, determinerebbe comportamenti disfunzionali.

Il concetto, in realtà, era stato già sviluppato fa alcuni filosofi, tra cui Epitteto, che nel I secolo d.C. scrisse nel Manuale (Enchiridion)
"L'uomo è agitato e turbato non tanto dalle cose, ma da ciò che egli pensa sulle cose".
 Secoli dopo, questo sarebbe diventato il principio cardine della terapia cognitivo-comportamentale.

Imparare a pensare in modo razionale si può!


Se la sofferenza emotiva è causata dall'irrazionalità del nostro nostro modo di pensare, è possibile vivere meglio cambiando il modo in cui pensiamo? A quanto pare, sì.

Secondo Ellis, il segreto sta nel riconoscere le convinzioni errate che possediamo, identificare le idee irrazionali che emergono automaticamente ogni giorno e modificarle, da soli o con l'aiuto di uno psicoterapeuta.

Ellis ha identificato 11 idee irrazionali e illogiche molto diffuse nella società occidentale. Vediamole insieme.


1.Si deve essere sempre amati o apprezzati da tutte le persone significative.


In realtà, non è assolutamente necessario essere amati da tutti quelli ci circondano, oltre ad essere un'impresa assolutamente impossibile. Per quanto possiamo sforzarci di apparire gentili, disponibili e adorabili, ci sarà sempre qualcuno che, per qualche motivo, ci troverà antipatici e odiosi, oppure, semplicemente, ci troverà talmente poco interessanti da ignorarci. 
Non avere l'approvazione o l'amore di una persona potrà essere frustrante e dispiacerci, ma non sarà così catastrofico e dannoso. Ellis ci invita a non cercare di ottenere l'amore degli altri in maniera frenetica, ma in modo intelligente e calmo: uno dei modi migliori di ottenere l'amore, dice Ellis, è offrirlo sinceramente.




2. Si deve essere sempre bravi, competenti e vincenti per essere considerati degni di valore.
Ancora una volta, oltre a non essere necessario, è impossibile eccellere in tutte (o quasi) le cose. Cercare di essere abbastanza bravi in qualcosa è, secondo Ellis, un obiettivo molto più sano, perché perché permette di impegnarsi senza imporsi riuscire bene ad ogni costo, condannandosi all'ansia e al senso di vergogna di fronte agli inevitabili fallimenti. Il continuo confronto con gli altri, inoltre, genera una competizione senza fine che ci porta a perdere di vista i nostri obiettivi originari.
Secondo Ellis, il nostro valore estrinseco (attribuito, cioè, dagli altri alle nostre prestazioni) non va confuso con il nostro valore intrinseco (il valore che noi possediamo indipendentemente dalle nostre performance, che possono essere buone o cattive). Noi possiamo essere buone persone, anche senza essere eccellenti.



3. Certe persone sono cattive, perfide e infami e meritano di essere condannate e punite.
Spesso pensiamo che una persona, essendosi comportata male con noi, sia senza alcun ombra di dubbio cattiva, malvagia, crudele, e che il solo modo di impedirle di comportarsi di nuovo male sia punirla, condannarla, denigrarla. Secondo Ellis, questa idea è irrazionale per diversi motivi. Prima di tutto, i criteri per valutare la gravità di un gesto variano da persona a persona, e ciò che è imperdonabile per noi potrebbe non esserlo per un altro. Inoltre, il semplice fatto che abbiano compiuto un'azione che ha causato un danno a noi o ad altri non fa di loro necessariamente delle persone crudeli, immorali o mentalmente instabili. Ellis suggerisce di modificare questa idea irrazionale, provando a vedere queste persone come individui che hanno commesso un'azione indesiderata: una cattiva azione non rende cattivi. Inoltre, punirli o denigrarli, come ci insegna l'esperienza, spesso non riduce la possibilità che il comportamento indesiderato si ripeta. La cosa migliore da fare, dice Ellis, è capire che gli errori si fanno spesso per stupidità o ignoranza. Bisogna accettare la gente quando è stupida, continua Ellis, e aiutarla quando è ignorante.


4. É terribile e catastrofico se le cose non vanno come vogliamo.
L'idea è irrazionale perché, semplicemente, le cose vanno come vanno, e, per quanto questo possa essere fastidioso o ingiusto, l'esserne perennemente e profondamente disturbati non cambierà lo stato dei fatti.
Invece di lasciarci turbare in maniera esagerata dalle circostanze della vita, potremmo provare a riconoscere che sarebbe bello se le cose fossero diverse, che preferiremmo che le cose cambiassero, che non ci piace lo stato attuale ma che non serve a niente catastrofizzare, drammatizzare ed avere un atteggiamento perennemente ostile e arrabbiato.
Le situazioni spiacevoli possono essere modificate con un po' di impegno. Se questo fosse possibile, lamentarsi e perpetuare lo stato di frustrazione non ci aiuterà. Accettarle la realtà, per quanto spiacevole, servirà almeno a non esasperarle, fino a renderle doppiamente fastidiose.


5. La sofferenza umana dipende solo da cause esterne e noi non possiamo fare nulla per controllare le nostre emozioni.
Milioni di persone in tutto il mondo sono fermamente convinte che la fonte di ogni sofferenza sia da ricercare negli eventi o nelle altre persone. Eppure, se ci riflettiamo, salvo alcuni casi in cui gli eventi ci procurano un reale danno fisico o grave privazione, nella stragrande maggioranza dei casi ciò che ci fa soffrire sono degli attacchi di tipo psicologico che non sono nocivi di per sé, ma per il significato che noi attribuiamo ad essi. Litigare con un amico, essere disapprovati da chi ci circonda, essere carichi di lavoro, non è dannoso di per sé, ma per l'interpretazione che ne diamo. Se un amico è freddo con noi, ciò ci ferisce perché lo interpretiamo come un segnale che lui si sta allontanando da noi e potremmo perderlo. In realtà, la sua freddezza non ci ha concretamente danneggiati. Ellis ci suggerisce di riflettere sul fatto che spesso siamo noi a rendere terribili, catastrofiche e drammatiche delle situazioni che sono al massimo fastidiose o indesiderabili.


6. Se qualcosa è o può essere pericoloso bisogna preoccuparsene enormemente e pensarci in continuazione.
L'ansia e la preoccupazione costante per un un evento spiacevole che potrebbe verificarsi potrebbe erroneamente sembrare un modo per prepararsi meglio all'eventualità che si realizzi, in modo da reagire prontamente. In realtà, nella nostra vita buona parte delle preoccupazioni ha raramente un carattere preventivo. Al contrario, spesso l'ansia eccessiva ci rende incapaci di affrontare al meglio la situazione pericolosa, qualora dovesse realizzarsi. Non solo: in alcuni casi è proprio l'ansia a determinarla, come ad esempio quando il timore di sbagliare un compito ci manda nel panico, compromettendone il risultato. Altri eventi, come le malattie e l'invecchiamento, sono inevitabili: pensarci continuamente non ci farà vivere giovani per sempre. Sarebbe utile invece dire a se stessi "Sarebbe davvero una gran seccatura se questa cosa si realizzasse, certo, ma non sarebbe poi così drammatica e terribile: in un modo o nell'altro, la saprei affrontare".


7. É meglio evitare certe difficoltà e responsabilità piuttosto che affrontarle.
Riuscire a vivere sfuggendo alle difficoltà e responsabilità sembrerebbe essere il segreto di una vita felice. Incredibilmente non è così. Per Ellis l'idea è irrazionale per una serie di motivi. Prima di tutto, sottrarsi con la fuga ad una situazione problematica è piacevole nell'immediato. Il sollievo dura per un po' di tempo, al termine del quale la persona potrebbe ritrovarsi ad affrontare le conseguenze e i fastidi della sua decisione. Ellis propone l'esempio di un uomo indeciso se baciare o meno la ragazza che ha di fronte: temendo un rifiuto, decide di non baciarla. Il sollievo è immediato, ma dopo poco inizierà a chiedersi se non ha perso un'occasione importante e il dubbio potrebbe renderlo infelice per ore, settimane, mesi o forse addirittura anni. Le nostre paure, se non affrontate, tendono ad ingigantirsi, poiché non mettiamo alla prova le nostre capacità di cavarcela in diverse situazioni. Le fughe donano un piacere breve e, quando il sollievo sfuma, resta l'insoddisfazione e una paura ancora più forte.


8. Bisogna per forza dipendere dagli altri e avere qualcuno di più forte su cui contare.

Dipendere dagli altri è una scelta irrazionale per una serie di motivi. Più ci affidiamo agli altri e più saremo costretti a rinunciare ai nostri sogni e desideri, a causa del pressante bisogno di aiuto che abbiamo e della paura di perderlo. Acconsentiremo, pertanto, a ciò che gli altri desiderano da noi. Dipendere dagli altri, lasciarci manipolare, guidare, spingere in una direzione o nell'altra, ci impedisce di agire da soli, di metterci alla prova, di imparare e, quindi, di crescere. Perderemo fiducia in noi stessi invece di aumentarla, ci sentiremo col tempo sempre più fragili e dipendenti, in un circolo vizioso difficile da spezzare. L'aiuto delle persone da cui dipendiamo, poi, non è necessariamente eterno: non possiamo dipendere dai genitori per sempre, perché prima o poi verranno a mancare. Allo stesso modo, non possiamo dipendere dal nostro partner, perché non è da escludere la possibilità che un giorno ci lasci e vada via.
Ellis ci invita ad accettare il fatto che, da un certo punto di vista, ogni individuo è "solo" al mondo: gli amici e la famiglia saranno al suo fianco, certo, ma, quando le difficoltà della vita compaiono, solo lui conoscerà i suoi desideri, i suoi bisogni, e solo lui potrà affrontare i suoi problemi. Non è così terribile essere indipendenti e autonomi: la capacità ci cavarsela da soli consente di crescere, di migliorare e di sviluppare una sana autostima.




9. Ciò che ci è accaduto in passato continuerà ad influenzare per sempre il nostro comportamento e la nostra vita.

Se una certa cosa ha influenzato la nostra vita in passato, continuerà a farlo per sempre? Molte persone, a quanto pare, pensano che sia così. Ellis evidenzia gli elementi di irrazionalità presenti in questa convinzione. Prima di tutto, solo perché una cosa si è rivelata vera in passato, non è detto che sarà sempre vera in ogni circostanza. Se affidarci ai consigli dei nostri genitori in passato si è rivelata una saggia decisione, permettendoci di fare la scelta più giusta, questo non vuol dire che per tutta la vita ci rimetteremo nelle loro mani per prendere qualsiasi decisione. Molto spesso, inoltre, attribuire una grande influenza al passato è un modo furbo per non cambiare le nostre brutte abitudini: esagerando l'importanza che le esperienze precoci hanno avuto su di noi, rischiamo di avere una buona scusa per continuare a comportarci così. "Ho fatto sempre così, fin da giovane, e ormai è troppo tardi per cambiare". In realtà, dice Ellis, per quanto il passato sia importante e influenzi in parte il nostro comportamento, questo non vuol dire che non abbiamo la possibilità di cambiare le cose, di stravolgere le nostre abitudini edi crearne di nuove, più funzionali.


10. Dobbiamo sconvolgerci terribilmente per i problemi e i disturbi degli altri.

Molte volte il semplice fatto che gli altri si comportino in un modo che noi disapproviamo ci turba terribilmente. Restiamo sconvolti dal modo in cui nostra cognata tratta nostro fratello, ad esempio. I suoi modi, freddi e decisi, ci sembrano eccessivi e non riusciamo a non esserne infastiditi. Consideriamo quel comportamento sbagliato, e ne siamo turbati. Ellis sostiene che molto spesso sconvolgerci per il comportamento degli altri ci distoglie da qualcosa molto più importante: osservare il nostro comportamento. Il pensare continuamente al comportamento fastidioso degli altri non cambierà le cose e ci renderà solo nervosi e irritati. Inoltre, non è detto che quel comportamento che tanto disapproviamo sia davvero sbagliato: forse nostra cognata sa che solo rivolgendosi a suo marito con un tono deciso riesce a farsi ascoltare e che questo trucco le evita infinite discussioni, litigi e sofferenze per lei e per lui. Ellis ci invita a chiederci se vale davvero la pena giudicare il comportamento degli altri e se non sarebbe meglio badare a noi stessi. Quando una persona a noi cara si sta comportando davvero male, invece di limitarci a disapprovarla e a lamentarci, non sarebbe più utile suggerirle con gentilezza e dolcezza un modo alternativo di comportarsi? Se poi i nostri suggerimenti non fossero apprezzati, ancora una volta non resta altro da fare che accettare il comportamento altrui.


11. C'è sempre una soluzione giusta e perfetta per tutti i problemi ed è una catastrofe non riuscire a trovarla.

Trovare la soluzione perfetta ad ogni problema è impossibile per la semplice ragione che le soluzioni perfette non esistono. Cercarle può creare solo aspettative irrealizzabili e una inevitabile insoddisfazione. Il perfezionismo estremo rende la soluzione di un problema più complicata, mentre sarebbe molto più saggio limitarsi a valutare le possibili soluzioni e scegliere la più attuabile. La scelta fatta potrebbe in ogni caso rivelarsi sbagliata, nonostante le valutazioni fatte: errare è umano, gli sbagli sono inevitabili ma nulla come i tentativi e gli errori permette alle persone di di crescere. 



In conclusione...



Tutte le idee irrazionali di cui abbiamo parlato rimandano a tre DOVERIZZAZIONI DI BASE:
  • Doverizzazioni su se stessi: devo agire bene, essere approvato da tutti, altrimenti sarà terribile
  • Doverizzazioni sugli altri : gli altri devono trattarmi bene ed agire come io ritengo che debbano agire, altrimenti meritano di essere puniti
  • Doverizzazioni sulle condizioni di vita: le cose devono andare come voglio io, altrimenti la vita sarà terribile


Ora è più facile comprendere perché la parola devo è così pericolosa. Sono queste doverizzazioni, secondo Ellis, a renderci infelici.
Modificarle si può. Da soli, o rivolgendosi ad uno psicoterapeuta, sarà possibile estinguere i pensieri disfunzionali e negativi e sostituirli con altri. Col tempo potremo imparare a non cadere nelle trappole delle idee irrazionali. Sarà un nuovo importante passo verso la nostra felicità.



Libri consigliati:
Albert Ellis "Ragione ed emozione in psicoterapia" ed. Astrolabio

sabato 19 aprile 2014

La costruzione di un amore. Quando volersi bene non basta - parte 1

"Quando c'è l'amore, c'è tutto. Non serve altro."
E' una delle affermazioni che abbiamo sentito ripetere più spesso. Quando si parla di relazioni, l'opinione diffusa è che l'amore sia sufficiente al funzionamento di un rapporto. Ma è davvero così? Le coppie innamorate non vanno incontro a periodi di crisi? Può il forte sentimento che lega due persone garantire una pacifica e soddisfacente vita insieme?

Oggi inauguriamo un ciclo di articoli sulla terapia di coppia.


C'era una volta l'infatuazione


Tutto iniziò con un colpo di fulmine, o qualcosa di simile. Lui conosce lei, e la vede stupenda. Lei lo osserva, e lo trova brillante. I difetti sono sfumati, quasi impercettibili, a volte addirittura adorabili. I pregi sono ingigantiti, sopravvalutati. Lui è perfetto, lei è perfetta. Tutto funziona come un meraviglioso meccanismo bel oliato. L'infatuazione è per definizione destinata a durare poco, lasciando al suo posto la necessità di confrontarsi, per la prima volta, con una persona vera, in tutta la sua "realtà". 


Dopo i confetti escono i difetti


E' opinione diffusa che dopo il matrimonio le coppie si ritrovino a dover affrontare la sconcertante realtà dei fatti: la persona che hanno sposato è molto diversa da come era sembrata in precedenza, e le conseguenze sono spesso devastanti. Ma è davvero così? 


Fermiamoci un attimo...


Arrivati a questo punto ci interrompiamo per fare una serie di precisazioni: in questa sede, prima di tutto, ci riferiamo alle coppie sposate per comodità, ma i principi di cui parleremo possono essere applicati a tutte le persone che stanno insieme, siano essi fidanzati, conviventi e coniugi. In secondo luogo, non vogliamo tristemente smontare la visione idilliaca e romantica dell'amore, evidenziandone con cinismo gli aspetti più oscuri. 
Poche esperienze, nella vita, sono emozionanti e significative come l'innamoramento. L'amore sconvolge, infiamma, trasforma, fa crescere, regala momenti di rara intensità, permette di condividere esperienze rendendole ancora più importanti, dona sicurezza e tranquillità.
Ma non solo, e non sempre.
Qui parliamo di quelle difficoltà che emergono nella vita di coppia, fatte di incomprensioni, di errori di comunicazione, di fraintendimenti e di paure più o meno consapevoli, che rendono il rapporto meno soddisfacente. 
La terapia cognitiva può essere applicata con successo a queste problematiche, attraverso un percorso che mira a fornire ai coniugi gli strumenti per rendere le loro comunicazioni più chiare e ridurre la possibilità di fraintendersi. Inoltre sviluppa la capacità di risoluzione dei problemi concreti che emergono ogni giorno, fornendo delle linee guida che, se seguite, possono alleviare notevolmente il carico di stress a cui sono sottoposti i coniugi.

...riprendiamo da dove c'eravamo interrotti


E così, dopo i confetti arriverebbero i difetti. In realtà, i difetti ci sono sempre stati, e non erano nemmeno tanto nascosti. Cosa è cambiato, allora?
Ogni persona, nessuna esclusa, presenta una costellazione unica di caratteristiche che lo rendono attraente e piacevole ed altre che, al contrario, sono indesiderabili. L'idealizzazione dell'altro e la sopravvalutazione del potere del sentimento che proviamo ci porta a pensare che ogni difficoltà, anche quelle legate a difetti dell'altro, sarà facilmente risolta. Così, nel periodo dell'infatuazione, sviluppiamo desideri e aspettative sulla vita insieme: il nostro sarà un amore travolgente , sarà un matrimonio perfetto. 
Le aspettative col tempo si intensificano, anche a causa dell'investimento sempre maggiore di impegno e tempo nel rapporto. Così, col tempo, diventano pretese.
"Ho sempre immaginato che, una volta sposata, mia marito mi avrebbe aiutata nei momenti di difficoltà" diventa "Un marito deve aiutare la moglie ogni volta che ha bisogno, se la ama davvero".
"Vorrei che mia moglie mi mettesse sempre al primo posto" diventa "Una moglie deve mettere il marito sempre al primo posto".
"Mi conoscerà così bene che capirà da solo ciò di cui ho bisogno" diventa "Lui deve capire cosa deve fare senza che io glielo dica." 
I desideri diventano aspettative,  le aspettative diventano regole, le regole diventano diritti e quindi pretese. Il circolo vizioso è completo.


Leggimi nel pensiero, se mi ami!


Ogni membro della coppia è assolutamente convinto che le proprie aspettative e regole abbiano motivo di esistere, che siano ragionevoli e valide. Questo ha come conseguenza il fatto che ognuno di noi pretende che l'altro sappia ciò che desideriamo, senza che gli venga detto. Tutto resta a livello del pensiero. Ciò che viene detto è ben diverso.
Cosa pensa: "Lo sapevo! E' appena rientrato a casa e si è già seduto in poltrona! Non mi dà mai una mano. Eppure dovrebbe capire che bado alla casa tutto il giorno e che la sera mi serve un aiuto!". Cosa dice: "Sto sgobbando come una serva da stamattina e tu te ne stai in poltrona! Bene!"
Cosa pensa: "Non sopporto quel suo sguardo arrabbiato. Mi sono seduto in poltrona, e allora? E' solo per dieci minuti, poi mi alzerò. Accidenti, sono appena tornato da lavoro e dovrebbe arrivarci da sola che ho bisogno di rilassarmi un attimo." Cosa dice: "Ogni volta che metto piede in questa casa inizi a lamentarti! A volte vorrei non tornarci proprio, a casa!"
Cosa pensa: "Come al solito non gli piace la cena che gli ho preparato. Mai che dicesse che è buono e mi facesse un complimento. Eppure dovrebbe rendersi conto che ho passato ore a fare la spesa e a cucinare per preparargliela! Non apprezza mai quello che faccio per lui.". Cosa dice: "E allora? Non mangi il contorno? Dovrò buttare tutto. Tanta fatica per niente."
Cosa pensa: "Guarda quante cose ha preparato! Avanzerà tutto, dovremmo buttare buona parte del pasto. Eppure dovrebbe sapere che dobbiamo fare economia. Non sa proprio gestire i soldi.". Cosa dice: "Non vedi che sto scoppiando? Vuoi che mi senta male?"
Eppure dovrebbe capire, eppure dovrebbe accorgersi, eppure dovrebbe arrivarci da solo...però non capisce, non si accorge, non ci arriva da solo. I desideri non sono espressi, le richieste non sono formulate, le critiche non vengono fatte in maniera costruttiva.

E' possibile imparare a comunicare meglio? Sì, si può. Il primo passo è smettere di pensare che il proprio partner abbia poteri soprannaturali e che abbia il dono di leggere nel pensiero. 
Se desideriamo qualcosa, esprimiamolo. Se abbiamo richieste, facciamole. Se qualcosa non ci va bene, facciamolo presente all'altro con gentilezza.
"Tesoro, vorrei che mi aiutassi per la cena. Potresti apparecchiare?"
"Vorrei rilassarmi per un po' in poltrona. Sono molto stanco, ma tra dieci minuti lo faccio."
"Ti sono sempre piaciuti i funghi. Stasera non li mangi?"
"E' tutto buonissimo, ma è troppo. E' un peccato buttarli. Potresti provare a cucinare meno cose. Che ne pensi?"
Ancora una volta, sembra facile ma non lo è, soprattutto quando lo stress e la fatica legate al lavoro e alla gestione della casa e della famiglia si accumulano, insieme alle delusioni legate alla caduta dell'illusione di una vita coniugale sempre e comunque soddisfacente. Ma imparare a comunicare correttamente si può, in maniera calma, gentile, ma anche diretta e decisa.
L'abilità di formulare osservazioni che non contengano critiche, frecciatine, lamentele, accuse si acquisisce gradualmente. Come ogni abilità, si mette in pratica e si affina col tempo.

Proviamo a capirci


Abbiamo parlato negli articoli precedenti degli errori che commettiamo ogni giorno nell'interpretazione dei segnali provenienti dall'esterno, ma anche dall'interno, cioè dei nostri stessi pensieri. Se non riusciamo sempre ad interpretare correttamente le nostre stesse produzioni mentali, come potremmo essere certi di comprendere con sicurezza ciò che pensano gli altri?
"La terapia cognitiva ha mostrato che i coniugi possono imparare a essere più ragionevoli l'uno con l'altro adottando un atteggiamento di minor sicurezza in sé e maggiore umiltà quanto all'esattezza della loro lettura del pensiero altrui e alle conclusioni negative che ne traggono, verificando queste conclusioni e prendendo in considerazione qualche spiegazione alternativa della condotta del partner." (A. T. Beck, 1988)


Ognuno di noi, soprattutto quando è stanco e arrabbiato, è portato ad interpretare erroneamente il comportamento altrui, vedendo dietro di esso motivazioni malevole e crudeli. E' difficile mettere in discussione le nostre interpretazioni.
"E' appena tornato e si è già seduto in poltrona. Non gliene importa niente di me! E' il solito egoista."
"Ha già cominciato a lamentarsi. Non capisce che sono stanco! Non gliene frega niente, pensa solo a se stessa!"  
La stessa frase ha significati diversi per chi la pronuncia e per chi la ascolta. "Sto sgobbando come una serva da stamattina!" per la moglie significa "Vorrei che mi aiutassi" e per il marito "Si lamenta solo ed è egoista. Non riconosce che sono stanco anch'io".
"La causa del litigio non sono le parole o le azioni  in se stesse, ma il significato che a esse attribuisce l'altro" (A. T. Beck, 1988).
Nella comunicazione usiamo segni e simboli che vanno interpretati. Letti in un certo modo, assumono il significato di critiche, di attacchi, di lamentele. Insomma, alla base di tante incomprensioni vi sarebbe un atteggiamento cognitivo negativo.
"La forza del pensiero negativo è confermata da molte ricerche. Ciò che distingue i matrimoni in crisi da quelli felici non è tanto la mancanza di esperienze piacevoli, quanto piuttosto il gran numero di esperienze sgradevoli, o di quelle che sono interpretate come tali. (...) Sembra che sia più naturale ottenere la felicità se si riducono le esperienze e le interpretazioni negative." (A. T. Beck, 1988)

La terapia cognitiva si concentra proprio sulle distorsioni che impediscono ai coniugi di comunicare o di comunicare bene.

E se l'altro proprio non collabora?


La terapia di coppia, a dispetto del nome, non deve necessariamente essere applicata alla coppia. Se il proprio partner non ritiene sia necessario un percorso terapeutico, non vede alcun problema nel matrimonio e semplicemente non ha tempo e voglia di parteciparvi attivamente, il/la compagno/a può rivolgersi ad un terapeuta da solo/a. I cambiamenti nel suo modo di comunicare si rifletteranno sull'equilibrio di coppia, migliorando le interazioni col partner e creando un clima più disteso a casa.
E chissà che col tempo, di fronte a tanto impegno e buona volontà , anche il partner non cambi idea e decida di entrare in terapia.

Iniziamo allora a compiere i primi passi da soli. Potremmo sorprenderci e scoprire che qualcuno sta seguendo le nostre orme.


Libri consigliati:
Aaron Beck "L'amore non basta" Ed. Astrolabio


domenica 13 aprile 2014

Be A.W.A.R.E.! Così si gestisce l'ansia



Be aware! Sii consapevole!
Abbiamo già parlato di consapevolezza ieri nell'articolo sulla meditazione mindfulness. Ma oggi non parliamo di questo. "Aware", infatti, non è il termine inglese con cui traduciamo l'aggettivo "consapevole", ma un acronimo. Ebbene sì: A.W.A.R.E. sta per accept, watch, act, repeat, expect. Sono i cinque passi proposti da Beck e Emery per gestire l'ansia.


L'ansia: la teoria di Beck

Beck (1967) sostiene che la comparsa dell'ansia sia causata dall'emergere di pensieri disfunzionali e distorti, il più delle volte formulati in maniera automatica e inconsapevole. Tali pensieri causano una sopravvalutazione della pericolosità degli eventi, nonché una sottovalutazione delle concrete capacità dell'individuo di fronteggiarli. Di conseguenza, molte situazioni sono percepite come pericolose, pur non essendole. I pensieri disfuzionali sono duri a morire e fanno riferimento a credenze profondamente radicate, che è difficile modificare. Difficile...ma non impossibile. La terapia cognitivo-comportamentale ha come obiettivo la modificazione di questi pensieri, con lo scopo di alleviare la sofferenza del paziente e migliorare la sua capacità di interpretare gli eventi che vive ogni giorno.


L'attenzione selettiva

Secondo Beck (1974) il paziente ansioso è ipervigile ed estremamente suscettibile ad alcuni stimoli che vengono interpretati come segnali di minaccia. La persona ansiosa ricerca attivamente nell'ambiente segni di pericolo. L'attenzione è focalizzata su elementi molto spesso innocui, che vengono scambiati per potenziali minacce. 
Beck e Emery (1985) proposero allora un trattamento per l'ansia che consisteva nello spostamento dell'attenzione dai pensieri ansiosi, sviluppando atteggiamenti mentali più adattivi. Il paziente veniva addestrato a prendere le distanze dai pensieri, dopo averli accettati e osservati. 
Un atteggiamento, insomma, molto diverso da quello normalmente messo in atto da un soggetto ansioso, che tende ad allontanarsi e a fuggire di fronte agli stimoli ansiogeni, nel tentativo di alleviare nel più breve tempo possibile le sensazioni spiacevoli.


Ancora una volta. la chiave per la gestione dell'ansia è l'accettazione. E' il primo passo, ma è quello più importante. Seguono altri quattro step.
Ma procediamo con ordine e descriviamo in maniera più approfondita le cinque fasi. L'acronimo ci aiuterà a tenerle a mente:
A. Accept, accettare
W. Watch, osservare
A. Act, agire
R. Repeat, ripetere
E. Expect, aspettarsi il meglio


 A. Accept 
Accettare l'ansia significa non tentare di sfuggirvi ad ogni costo. Significa accoglierla e lasciarla fluire.

Datele il benvenuto. Dite "Salve!" ad alta voce o a voi stessi quando appare. Dite "L'accetterò con piacere". (Beck A.T., Emery G., 1985)
Niente reazioni di fastidio, di odio o di collera. Solo accettazione. Resistervi non farà che peggiorare l'ansia. Accettate il fatto che siete preoccupati, spaventati o nel panico. Dite: "Ok, sono in ansia. Va bene. Di certo non mi ucciderà! Passerà. Solo perché sono il ansia non significa che mi accadrà qualcosa di brutto."

La reazione spontanea di fronte all'ansia è la fuga: vorremmo scappare via, liberarci al più presto di quella sensazione così spiacevole. A volte i pensieri ansiosi continuano a tormentarci per ore, o anche per tutto il giorno. Una lenta, infinita ruminazione che ci distrugge. "Basta, non devo più pensarci!" diciamo a noi stessi. Ma l'ansia è ancora lì, e i pensieri tornano più forti di prima.

L'ansia non è piacevole, ma non ci ucciderà. Non ci farà impazzire, non ci farà ammalare. Lasciamo che si manifesti.

W. Watch 

Osservare l'ansia significa prendere le distanze da essa, non lasciarsi travolgere. L'ansia c'è e dobbiamo riconoscerla per quello che è. Osserviamo come cresce, fino a raggiungere il picco più alto, e poi osserviamo come decresce e diventa sempre meno intensa, sempre più debole, fino a scomparire.

L'ansia segue un andamento ben preciso: dobbiamo sempre ricordare che, così come aumenta, diminuirà. Se tornerà, andrà via di nuovo.

Osservarla ci permetterà di distanziarci e di capire che l'ansia è una sensazione: noi non siamo l'ansia. Distanziandoci, manterremo la calma ed eviteremo di fare subito qualcosa: restiamo in attesa per un po', non c'è fretta. Restiamo fermi per qualche istante prima di agire. Ricordiamolo ancora una volta: solo perché siamo in ansia, non significa che ci accadrà qualcosa. L'ansia non ci ucciderà certamente! E passerà...bisogna solo aspettare.

A. Act

Agire significa agire con l'ansia. Non fermatevi. Se necessario, rallentate. Ma agite come se non foste ansiosi. Questo normalizzerà la situazione. Gradualmente sentirete l'ansia diminuire. 
Se restate immobili, i livelli di ansia sembreranno aumentare. 
Agite, ma non fuggite: la fuga riduce le sensazioni spiacevoli legate allo stato ansioso ma col tempo incrementa la paura e riduce la fiducia nelle nostre capacità ci fronteggiare le situazioni.

R. Repeat 

Ripetere le fasi finché non vi sentirete meglio. Quindi continuiamo ad accettare l'ansia, ad osservarla e ad agire. E ancora la accettiamo, la osserviamo, e continuiamo ad agire. E ancora, e ancora, finché non ci sentiremo più tranquilli e l'ansia calerà.

E. Expect

Aspettarsi il meglio è fondamentale perché molto spesso ciò che temiamo non avviene mai. Nell'attacco di panico il soggetto è terrorizzato dall'idea di svenire, avere un infarto, impazzire o addirittura morire. Ciò non avviene mai. Ogni persona ansiosa teme che possa accadere il peggio, ma ciò accade di rado. 
Molto rumore per nulla, insomma. Tanta paura, tante preoccupazioni per un pericolo che raramente si rivela reale. 

E allora aspettiamoci il meglio. Ricordiamoci che l'ansia ci sarà sempre, impariamo a convivere con essa e a non lasciarci travolgere. Arriveranno altre ondate di ansia, e noi di nuovo le accetteremo, le osserveremo e agiremo come se non fossimo ansiosi. Passo dopo passo, riusciremo a convivere con essa e smetteremo di esserne terrorizzati. 
Non illudiamoci mai di averla sconfitta per sempre. Aspettiamoci altri momenti di ansia, ma senza temerla. La affronteremo di nuovo, e di nuovo, e di nuovo. E ogni volta che comparirà, passerà. E noi resteremo sempre vivi. Resteremo in piedi. 



Quindi, alla fine...

...l'ansia non sarà mai un'amica, ma almeno possiamo smetterla di trattarla come un temibile nemico da cui fuggire.

Il detto dice "se non puoi sconfiggere il tu nemico, alleati con lui". Proviamo a vedere questa strategia come un tentativo di alleanza con l'ansia. Permettiamole di esserci, di esprimersi, di manifestarsi. Lei ci permetterà di andare avanti.

Sconfiggere l'ansia per sempre è impossibile, ma conviverci sì.



Bibliografia: A. T. Beck, G. Emery "L'ansia e le fobie", 1988, Astrolabio.




sabato 12 aprile 2014

Mindfulness. Imparare a vivere nel momento presente.

Tormentati dal passato, angosciati dal futuro.

Quante volte la nostra serenità è turbata dal riemergere dei ricordi? Fallimenti, sbagli, eventi dolorosi, perdite importanti: i mostri del passato ci raggiungono nonostante i nostri tentativi di andare avanti.
E i mostri del futuro? Anche le preoccupazioni per ciò che può accadere a volte rendono il nostro presente infelice. Dubbi, angosce, paure per ciò che ancora non è avvenuto, ma che potrebbe avvenire. Ogni nostra faticosa conquista, ogni cosa bella che possediamo, ogni momento di felicità è minacciato dal pensiero che un giorno, magari nemmeno tanto lontano, possa svanire.
In mezzo c'è il presente, schiacciato tra un ingombrante passato e un futuro incerto.

Eppure c'è il presente. Esiste. E' lì. Ma per qualche ragione non riusciamo a viverlo pienamente.



Stress, preoccupazioni, incertezza, precarietà, ansia, dolori fisici, malattie, mettono a dura prova il nostro equilibrio, prosciugano le nostre risorse, esauriscono le nostre energie. Rispondiamo all'incertezza con tentativi esasperati di controllare noi stessi, gli altri e gli eventi, destinati il più delle volte e fallire e ad aumentare ancora una volta la nostra frustrazione.

Eppure imparare a vivere il momento presente è possibile, così come è possibile sviluppare la capacità di accettare la realtà, senza tentare di scappare di fronte agli eventi indesiderati o di cambiarli.
E un modo di farlo è attraverso la meditazione di consapevolezza. Oggi parliamo di mindfulness.






Mindfulness. La meditazione di consapevolezza.

"Mindfulness" è un termine difficile da tradurre. Potremmo indicarlo in italiano col termine consapevolezza o attenzione consapevole.
La meditazione mindfulness si ispira alla meditazione vipassana, antichissima pratica contemplativa buddhista. Il primo ad applicare la pratica della mindfulness alla clinica fu Jon Kabat-Zinn, il quale addestrò i suoi pazienti all'esercizio della meditazione con lo scopo di ridurre i livelli di stress e i dolori fisici.
Oggi, la mindfulness è considerata la "terza onda" della terapia cognitivo-comportamentale.




Meditazione, accettazione, purificazione della mente

L'insicurezza, le frustrazioni, le delusioni, il dolore e i malesseri fisici sono parte della nostra vita. E' impensabile immaginare di condurre una vita priva di piccole e grandi sofferenze. Saremo sempre sottoposti a pressioni, le persone che ci circondano non saranno sempre gentili e il nostro corpo non sarà giovane e perfettamente funzionante per tutta la vita.
La fuga da tutto ciò che non ci piace e ci infastidisce, anche se nell'immediato allevia le frustrazioni e il dolore, a lungo andare produce ancora più insicurezza. Emergono allora l'ansia, molteplici disturbi psicosomatici e fragilità con cui è difficile convivere.


Gli eventi piacevoli e spiacevoli capitano a tutti, eppure per qualche ragione tendiamo ad enfatizzare quelli negativi, lasciando le esperienze positive sullo sfondo. Perché accade questo?

La nostra mente emette costantemente pensieri che assumono la forma di giudizi, con cui classifichiamo gli eventi in rigide categorie: buono e cattivo, bello e brutto, giusto o sbagliato.
E' giusto essere sempre efficienti, perfetti, pronti a tutto, lavoratori instancabili, genitori presenti, compagni impeccabili. E' buono se nella vita va tutto liscio come l'olio. Se emergono delle difficoltà, è male. Se faccio degli errori, o sono stanco a volte e non sono perfetto, allora è sbagliato: ciò non va bene. Le cose sono belle o  brutte, giuste o sbagliate. Non ci sono vie di mezzo.
 Oltre ai giudizi, la mente produce infiniti desideri che si traducono in altrettante aspettative e doverizzazioni.
Se solo avessi più soldi...Se solo fossi più bello...Se solo vivessi in un'altra città...
Appena sarò laureato, troverò subito un buon lavoro. Appena avrò trovato un buon lavoro, troverò l'amore. Appena troverò l'amore, mi sposerò. E la mia vita sarà sempre felice. 
Devo trovare un buon lavoro. Devo fare soldi. Devo farmi una famiglia. 
La mente lavora incessantemente, producendo miliardi di pensieri in modo spesso inconsapevole. E noi, bombardati da infiniti giudizi, doverizzazioni, agiamo come fossimo in balia delle nostre stesse produzioni mentali.
Eppure i pensieri sono pensieri. Non sono la realtà.


Uno degli obiettivi della meditazione mindfulness è quella di prendere le distanze dai nostri pensieri, imparare ad osservarli da lontano, riconoscerli come tali (cioè, come pensieri appunto), distinguerli dalla realtà, non accettarli criticamente come dati di fatto.
Il mio capo oggi mi ha ripreso. Sono un incompetente!
"Sono un incompetente" è un pensiero, un giudizio. Non è necessariamente la realtà. Lo osservo, lo accetto, lo riconosco come prodotto della mia mente, lo distinguo dai dati della realtà. 
Mi sento solo. Nessuno mi ama. 
E' un pensiero, non è la realtà. Non è detto che nessuno ci ami o che non ci amerà mai. Non significa che non siamo amabili. Significa solo che in questo momento stiamo sperimentando un sentimento di solitudine. Lo osserviamo, lo accettiamo, lo riconosciamo come prodotto della nostra mente, non come realtà di fatto. 

Sviluppare questa capacità è difficile e richiede tempo, ma con la pratica si otterranno buoni risultati in poco tempo. La meditazione ci aiuterà ad essere davvero coscienti di ciò che ci accade nel momento presente, diventando consapevoli di ogni singolo momento della nostra vita.





In cosa consiste la meditazione 

L'essenza della meditazione consiste nel focalizzare la nostra attenzione sul respiro.
Sembra facile, ma non lo è per niente.

Facciamo un esperimento. Chiudete gli occhi per un minuto restando seduti sulla sedia. Concentratevi sul vostro respiro, sentendo l'aria che entra e esce dal naso. Nient'altro.
Vi renderete conto che in soli 60 secondi la vostra attenzione vi è sfuggita molte volte e diversi pensieri si sono affacciati per distrarvi.
La meditazione ci permetterà di comprendere che siamo continuamente bombardati da mille pensieri e che ne siamo perlopiù inconsapevoli. Ci permetterà anche di rivolgere deliberatamente la nostra attenzione a cose che normalmente ignoriamo. Non saremo più in balia di pensieri che si producono automaticamente e inconsapevolmente.


Come praticare la meditazione

Prima di tutto bisogna scegliere un luogo e un momento della giornata in cui dedicarsi liberamente alla meditazione. Il luogo deve essere silenzioso e pulito. La seduta in genere dovrebbe durare 45 minuti circa, ma è possibile iniziare con 10 minuti al giorno per poi progressivamente aumentare la durata. 
La posizione ideale è quella del loto, con le gambe incrociate e entrambe le piante dei piedi che toccano le cosce opposte. Sarebbe utile sedersi su un cuscino alto e non troppo morbido. La schiena è ben dritta, le spalle e le braccia rilassate, le mani tenute a coppa in grembo o aperte sulle ginocchia. Gli occhi solo chiusi. 



A questo punto tutto ciò che bisogna fare è osservare il proprio respiro. Concentriamoci sull'aria che entra dal naso, riempie i polmoni ed esce dal naso. E' fresca nelle narici durante l'inspirazione, calda quando esce. Sentiamo il diaframma distendersi e contrarsi. Il petto di allarga per poi comprimersi. Il respiro è regolare, naturale.
L'attenzione ben presto verrà a mancare e i pensieri si affacceranno a distrarci. Pensieri su cose che abbiamo fatto, cose che dobbiamo fare, che compaiono all'improvviso.
I pensieri vanno accettati, osservati, accolti come tali, e poi, con pazienza, l'attenzione viene riportata sul respiro.
Ma durerà poco: i pensieri torneranno ad affacciarsi. Mille volte ricompariranno, e noi mille volte li osserveremo, li accetteremo senza giudicarli e mille volte torneremo a concentrarci sul respiro.

I ricordi verranno riconosciuti come tali, cioè appartenenti al passato. Gli impegni, le preoccupazioni per le cose che dobbiamo fare e le ansie per la giornata che dobbiamo affrontare saranno accettati per quello che sono: pensieri che riguardano il futuro.
Ma noi ora siamo nel presente, ci concentriamo sulle sensazioni che stiamo vivendo ora, in questo momento. L'attenzione fluttua, e con pazienza viene riportata al presente, al qui e ora, al respiro.

Con la pratica sarà sempre più facile guidare la nostra attenzione e focalizzarla su ciò che vogliamo.
I pensieri che emergono continuamente, che prima ci costringono ad una costante ed estenuante ruminazione, vengono accolti, osservati, accettati. Ce ne distacchiamo, prendiamo le distanze da essi.

L'ansia ci assalirà in diversi momenti della giornata, ma riusciremo, grazie l'abilità che abbiamo sviluppato con la meditazione, a non lasciarci travolgere.

"Sono un fallimento, non so fare niente." E' solo un pensiero. Non è la realtà.
"Il mio esame della settimana prossima andrà male." Riguarda il futuro. Ora viviamo il presente. Nel presente possiamo impegnarci e studiare. Il futuro non ci impedirà di vivere questo momento con serenità.
"Ieri il mio capo mi ha ripreso" Riguarda il passato. Il passato è passato. Ora viviamo il presente, e quello che possiamo fare nel presente è lavorare con impegno e serietà. Il passato non rovinerà la serenità del momento presente. 


 "Meditazione è osservare deliberatamente il il tuo corpo e la tua mente, lasciando che le tue esperienze scorrano liberamente di momento in momento e accettandole così come sono. Meditazione non significa rifiutare i pensieri o bloccarli o reprimerli. Non significa controllare alcunché, eccetto la direzione della tua attenzione." (Kabat-Zinn, 1990).

Con la pratica della meditazione impareremo gradualmente a vivere nel momento presente, senza lasciarci tormentare dal passato o angosciare dal futuro. Saremo più consapevoli di ciò che accade dentro di noi.
Il percorso verso la serenità è lungo ma ricco di soddisfazioni. E come tutti i percorsi, si affronta passo dopo passo. Respiro dopo respiro.






Libri consigliati:
A. Montano "Mindfulness. Guida alla meditazione di consapevolezza", Ed. Ecomind, 2007.





sabato 5 aprile 2014

I giorni dell'abbandono. L'elaborazione del lutto amoroso.

-Di che parla questo libro che non ti vogliono pubblicare? 
-Parla di due persone che non stanno più insieme. Una soffre, l'altra no. Però forse quello che racconta veramente è che non bisogna aver paura di lasciare. Perché tutto quello che conta, non ci lascia mai, anche quando non vogliamo.
                                                     (un dialogo dal film Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek)


Due persone non stanno più insieme. Una soffre, l'altra no. Una va via, l'altra resta sospesa, immobile, smarrita.
Poche esperienze nella vita lasciano dentro un vuoto come l'abbandono da parte di una persona che amiamo. Un vuoto che sembra incolmabile, che fa male, che toglie il fiato, che non fa dormire.
L'altro va via, e la nostra vita sembra non avere più senso. Cosa c'è dopo l'addio? Smarrimento, dolore, paura, senso di solitudine, disperazione? Ogni storia d'amore è unica, così come lo è ogni addio, ma le tappe che attraversiamo sono spesso simili, e riconoscerle potrebbe aiutarci a comprendere meglio cosa sta avvenendo in noi.

All'inizio ci fu il dolore


Il senso di smarrimento iniziale, di incredulità, quasi di negazione di ciò che sta avvenendo, lascia presto spazio al dolore. Sarà il nostro compagno per molto tempo, ci accompagnerà tutti i giorni e ogni tentativo di seminarlo lungo il cammino fallirà.
Il dolore è costante, intenso, è localizzato proprio lì, nel petto, sullo stomaco. E' come un peso, come una morsa, non ci fa respirare. L'idea che la persona amata sia andata via, che non riceveremo più una sua telefonata, che l'ultimo nostro abbraccio è stato davvero l'ultimo, ci lascia frastornati.
Una delle prime reazioni è parlarne, parlarne e poi ancora parlarne: interminabili telefonate all'amico del cuore, giornate intere in cui l'unico argomento affrontato è la rottura, disperate richieste di aiuto.
Elaborare l'accaduto farà solo bene, ci permetterà di mettere a fuoco l'abbandono, distanziandocene per osservarlo meglio. Gli amici in questa fase ci possono aiutare tantissimo, ma la maggior parte del lavoro del superare il dolore lo faremo da soli...ma al momento giusto.


La speranza è l'ultima a morire, purtroppo


E' questa la fase in cui, disperatamente, ancora facciamo ogni tentativo possibile per riportare l'altro da noi. E' ancora viva la speranza che cambi idea, che se ne penta, che torni sui suoi passi. Fantastichiamo quel momento, lo desideriamo con tutto il cuore, ci aggrappiamo a questa speranza con le unghie...e questo non fa altro che prolungare la sofferenza.
I tentativi di restare in contatto, i messaggi inviati, le telefonate fatte, le lettere spedite, i regali, sono gesti che alleviano la sofferenza per poco: permettono un piccolo contatto con l'altro, uno sfiorarsi per qualche secondo, richiamando la sua attenzione su di noi, e nascondono la speranza che possa pentirsi della decisione presa.
Forse la cosa più difficile sarà dire a se stessi "Non tornerà.".
E' una verità che non vogliamo accettare, ma abbandonare la speranza di un suo ritorno sarà uno dei passi più importanti più importanti per distaccarci dall'altro.


Ma la colpa di chi è?


Si giunge poi alla fatidica domanda: ma è colpa mia o sua? 
La ricerca di un responsabile è una tappa quasi obbligata. Nelle primissime fasi, in genere, non abbiamo dubbi: è colpa nostra, solo nostra. Abbiamo sbagliato (o "siamo" sbagliati), la persona che amiamo appare ancora magnifica ai nostri occhi, perfetta, adorabile. Tornasse indietro, la riprenderemmo subito con noi. Siamo noi che dobbiamo farci perdonare.
Ci vorrà del tempo per vedere le cose con la giusta lucidità e comprendere che la responsabilità non è mai di uno solo dei due, e che forse possiamo anche aver sbagliato, ma non saremo mai sbagliati.


La "sana" rabbia


L'analisi delle responsabilità ci porterà col tempo ad ammettere che anche l'altro ha delle colpe. Insomma, abbiamo sbagliato entrambi. C'è una fase in cui la rabbia emerge con forza, tanto da ribaltare la distribuzione delle responsabilità della fase precedente: ora, all'improvviso, la colpa è tutta dell'altro/a e noi siamo le vittime della cattiveria altrui. 
I difetti che sembravano essere così sfumati fino ad ora ricompaiono più intollerabili che mai. Lui/lei non era perfetto/a, alcuni suoi comportamenti sono imperdonabili e una parte di noi inizia ad odiarlo/a. 
Ma è un odio che non cancella l'amore, ma, anzi, gli cresce accanto, rendendo i sentimenti contraddittori e confusi.
In questa fase vorremmo vederlo soffrire, venire a sapere che sta male, che soffre, che sta passando un periodo orrendo, che tutto nella sua vita va a rotoli. Vorremmo sentirci dire da amici in comune che è solo come un cane, triste, depresso. Ci sentiremmo meglio, perché significherebbe condividere il dolore con l'altro, sentirci meno strani e patetici. 
Sapere che sta bene e che magari sta iniziando una nuova frequentazione, o addirittura una relazione vera e propria, potrebbe avere un impatto devastante su di noi.
Allora parleremo male di lui/lei, ci sfogheremo con gli amici, descriveremo l'altro come un essere senza anima né cuore, una bestia orrenda che non merita niente, che non meritava noi, che non meritava il nostro amore.
Ma siamo ancora innamorati di questa bestia senza cuore, e il percorso da fare è ancora lungo.
La rabbia non spegne l'amore. 


Guardare in faccia la verità: l'accettazione


L'odio non ci impedisce di amare. Cosa, allora, ci permetterà di andare avanti?
Il percorso che abbiamo intrapreso, se siamo fortunati, ci porterà all'accettazione.
Lungi dall'essere meno dolorosa delle altri fasi, l'accettazione comporta un atto di coraggio e di forza: significa lasciare andare l'altro, vederlo scivolare via dalle nostre mani come fosse sabbia, senza trattenerlo, dirgli addio, accettare il posto vuoto che ha lasciato.
Il coraggio sta nell'accettare che le persone a volte non stanno insieme per sempre, che possono smettere di amarsi. Accettare significa avere la forza di dirci che lui/lei non ci ama più, che non ci vuole, che preferisce stare senza di noi, per quanto queste parole siano terribili e ancora facciano male.
Accettazione significa capire che la storia è finita perché non poteva continuare, ma che questo non significa che nessuno ci amerà più, che siamo sbagliati, che abbiamo qualcosa che non va.
E' la fase in cui è utile guardarsi dentro ed essere soddisfatti di noi: abbiamo attraversato la negazione, il dolore, la rabbia, e ora eccoci qui, più forti di prima, nelle fasi finali di questo percorso. Siamo cresciuti, siamo maturati, abbiamo affrontato i nostri demoni, non siamo scappati davanti alla sofferenza.
Abbiamo pianto tutte le lacrime che dovevamo piangere (o forse ne piangeremo ancora altre), ma siamo ancora in piedi. Ricordate il dolore dei primi giorni? Pensavate di non riuscire a rialzarvi. Ricordate di aver avuto paura di morire? Dicevate "non ce la farò mai". Beh, ce l'avete fatta. Non siete morti, siete vivi, siete in piedi.

E ora dovete accettare quello che è successo.
Accettare, dire addio, perdonare forse.
Accettarsi, essere orgogliosi di voi, ricominciare daccapo, riprendere la vostra vita.

Il dolore vi accompagnerà ancora per un po': potrà essere più o meno intenso a seconda delle attività in cui siete impegnati, dai vostri tentativi di distrarvi, ma vi colpirà ad ondate, come quando siamo seduti sul bagnasciuga e le nostre gambe vengono ricoperte all'improvviso da una lingua di mare e di spuma, che velocemente si ritira, per poi tornare.
Alla radio passa una canzone che ascoltavamo insieme, e siamo colpiti da un'ondata. Troviamo una nostra foto in un cassetto, e siamo colpiti da un'ondata. Riconosciamo un posto dove siamo stati insieme, e siamo colpiti da un'altra ondata.
Ma le ondate arrivano e si ritirano.
Piano piano, saranno sempre più deboli, sempre meno frequenti. Poi le onde si placheranno, lentamente. Abbiate fiducia. 
Resterete voi, un po' cambiati, più maturi, più forti, e davanti a voi un mare finalmente calmo.







 


                                                                             

venerdì 4 aprile 2014

Il Narciso: se lo conosci, lo eviti.

Ho appena finito di leggere "Ho sposato un narciso. Manuale di sopravvivenza per donne innamorate" di Umberta Telfener, psicologa e psicoterapeuta esperta di Teoria dei Sistemi.
Il titolo la dice già lunga. Perché, con un uomo narciso accanto, una donna non può vivere, ma sforzarsi di sopravvivere.

download (1)
Leggendolo, nessuna donna potrà fare a meno di pensare "Oh mio dio, ma qui si parla del mio ex! E' lui, ma sì...è proprio LUI!". Insomma, nel passato (ma anche nel presente, probabilmente) di ogni donna c'è almeno un narciso.

Ma chi è il narciso dal quale l'autrice ci mette in guardia? 
"Carismatico, eloquente, un encantador. L'uomo narciso si mostra brillante, ama salire in cattedra e venire ascoltato. Molto sicuro di sé, va preso a piccole dosi. (...) Con i narcisi non ci si annoia mai: persone molto intelligenti e intriganti, costituiscono grandi sfide relazionali, funzionano nei momenti di crisi, muoiono se si annoiano e subiscono la mancanza di stimoli o se non vengono gratificati.".

Insomma, l'uomo narciso è stupendo, affascinante, brillante, divertente. In poche parole, irresistibile. Sembra perfetto, fa girare la testa, "affascina e ferisce". Ama essere al centro dell'attenzione, essere ammirato, piacere, più di qualunque altra cosa al mondo. 

Nel primo periodo della relazione, quando il gioco della conquista lo stimola, dà il meglio di sé: è un gran seduttore, prova il desiderio di entrare in uno stato di fusione con la donna, di vivere con lei un amore totale, completo. E' presente, attento, romantico. Telefona decine di volte al giorno, lascia messaggi divertenti, riesce sempre a stupire la partner. Il narciso cerca la fusione, la simbiosi, un attaccamento profondo con la sua donna: vorrebbe diventare un tutt'uno con lei, nel tentativo di creare il rapporto perfetto, l'Amore Vero.

Ma dura poco. "Passata questa fase - l'apoteosi della loro grandezza- la quotidianità riprende il sopravvento e loro devono tornare a fare i conti con la realtà: e questo a loro non piace." scrive l'autrice. La noia della vita di tutti i giorni spegne il loro entusiasmo. Tristemente scoprono che quell'Amore Vero, che loro immaginavano come una eterna e inesauribile fonte di emozioni, attraversa anche fasi di stallo...fasi di stallo che lui non riesce a tollerare. Sono annientati dall'insoddisfazione, e si trasformano in bambini capricciosi, insofferenti. "Tutto questo è una reazione (desiderio e paura vissuti contemporaneamente) al peso della routine, a causa dell'incapacità di mediare tra piaceri e doveri, dell'eccessivo senso di responsabilità, , che porta al rifiuto di un rapporto di scambio profondo e propone, invece, una quotidianità ripetitiva e ostile".

La rottura e la fuga sono una delle modalità più frequentemente messe in atto dal narciso per scappare dal peso schiacciante della noia. Una fuga fatta però di ritorni sempre possibili, nell'aspettativa (irrealistica?) di trovare la donna ancora lì, proprio nel punto in cui era stata lasciata, ancora innamorata, ancora affascinata, ancora sua. Ritorni che non escludono altre fughe, altri abbandoni, in una eterna danza dalla quale le donne escono spesso a pezzi, lacerate, distrutte.

La domanda sorge spontanea: perché lo fanno?

L'autrice è molto abile nel tracciare il profilo di quest'uomo, con tutte le sue ambivalenze. Perché il narciso è sì splendido, brillante, e affascinante, ma è al tempo stesso fragilissimo, portatore di un profondo tormento interiore, di una sofferenza che non riesce a mettere a fuoco, ad elaborare, ad affrontare. Il narciso scappa da una donna che vede come una minaccia, perdendo l'occasione di affrontare la sua paura, di mettersi alla prova, di crescere. Resterà bambino per sempre. Un bambino in fuga.

L'autrice però non esclude la possibilità di trovare un modo per convivere con questi uomini così difficili. La vita con loro non sarà facile, non si avranno mai certezze, la possibilità dell'abbandono sarà sempre dietro l'angolo, ma con le giuste strategie è possibile gestire questo narciso capriccioso e umorale.
Il narciso mette a dura prova la donna, ma le dà in cambio emozioni forti ed esperienze intense come pochi sanno fare.

Insomma, bisogna semplicemente capire se il gioco vale la candela. Voi che ne pensate? :)

giovedì 3 aprile 2014

Impariamo a dire no

Domenica mattina. Giornata libera dal lavoro. Gli uccellini cinguettano, il letto è caldo, non ci sono impegni per la mattinata. Il programma è starsene sotto le coperte a non fare niente di più stressante di qualche carezza al gatto o dello zapping col telecomando. Tutto perfetto…troppo perfetto.
Trilla il cellulare. Un messaggio: è un amico, si annoia da morire, vi scrive che c’è un sole bellissimo, una temperatura primaverile deliziosa e vi chiede di uscire per un caffè. Ma…e il letto? e il gatto? e i cartoni in tv? Insomma, non ne avete voglia. Volete guardare i cartoni. Volete restare in pigiama. Non vi va proprio. Ma del resto, l’amico vi sta chiedendo di uscire…insomma, alla fine gli dite di sì e uscite coraggiosamente dal letto.
Perché lo avete fatto, se non volevate?
Facciamo un passo indietro, e poi ci ritorniamo.


images (21)


Manuel J. Smith, psicologo clinico-sperimentale, scrive nel 1975 un libro che venderà poi due milioni di copie: il titolo, When I Say No, I Feel Guilty, dice già tutto. Il cuore dell’opera è una teoria dei diritti, espressa in dieci punti, basata su due elementi chiave: la capacità di esprimere il proprio volere in modo garbato, ma chiaro e deciso, e quella di resistere alle manipolazioni esterne.
Si parla di assertività, insomma, ovvero la qualità di chi riesce a far valere i propri diritti, opinioni, idee e desideri, ma sempre nel rispetto di quelli altrui.
Ora, io i dieci diritti assertivi io li stamperei in centomila copie che poi andrei ad attaccare ovunque. Non so se lo farò un giorno, non si sa mai, ma per il momento spero che più persone possibili abbiano la possibilità di leggerli e rifletterci un po’ su. Eccoli:


I dieci diritti assertivi

Voi avete il diritto di dire no senza sentirvi in colpa.
  1. Voi soli avete il diritto di giudicare il vostro comportamento, i vostri pensieri e le vostre emozioni, e di assumervene la responsabilità accettandone le conseguenze.
  2. Voi avete il diritto di non giustificare il vostro comportamento adducendo ragioni o scuse.
  3. Voi avete il diritto di decidere se occuparvi degli altri,se essere responsabili degli altri.
  4. Voi avete il diritto di mutare parere e opinione (…) di cambiare il vostro modo di pensare.
  5. Voi avete il diritto di sbagliare, assumendovi la responsabilità delle eventuali conseguenze negative.
  6. Voi avete il diritto di non farvi coinvolgere dalla benevolenza che gli altri mostrano quando vi chiedono qualcosa.
  7. Voi avete il diritto di essere illogici nelle vostre scelte.
  8. Voi avete il diritto di dire “Non so” quando vi si chiede una competenza che non avete.
  9. Voi avete il diritto di dire “Non capisco” a chi non dice chiaramente che cosa si aspetta da voi.
  10. Voi avete il diritto di dire “Non mi interessa” quando gli altri vi vogliono coinvolgere nelle loro iniziative.

I diritti sono le fondamenta su cui costruire rapporti positivi con gli altri, basate sul rispetto reciproco e sull’onestà.
Ovviamente, riconoscere i propri diritti significa che ci sono anche dei doveri, primo tra tutti quello di rispettare i diritti altrui.

Torniamo ora al messaggio dell’amico che vi chiede di uscire mentre siete sotto le coperte a fare le coccole al gatto.
Tutti i diritti elencati prima possono ricondursi ad un unico, universale e fondamentale diritto: quello di dire no senza sentirsi in colpa. Allora perché quasi sempre diciamo sì?
Il senso di colpa è uno dei sentimenti più dolorosi, odiosi, fastidiosi, e un sacco di altre cose che terminano con “osi”.
Ben venga il senso di colpa quando davvero c’è una colpa: quale miglior campanello d’allarme potrebbe avvertirci che abbiamo sbagliato? La sensazione sgradevole che proviamo ci permette di rimediare all’errore. E’ utile. E’ adattivo.
Ma dire di no ad un amico che ha voglia di prendersi un caffè mentre noi vogliamo poltrire fino a mezzogiorno può essere una colpa? Dire di no alla suocera che per l’ennesima volta ci invita a pranzo la domenica mentre noi avevamo deciso di fare una gita? Dire di no al collega che di nuovo ci chiede un favore che ci porterà via del tempo libero che desideravamo spendere in un altro modo? Dire di no alla vicina di casa che ci chiede di tenerle la figlia per qualche ora, quando siamo carichi di lavori da sbrigare?
Dire di no ad un amico, deludere le aspettative di chi ci crede sempre disponibili e pronti a scattare ad ogni chiamata, genera un senso di colpa difficile da tollerare. Il timore profondo è quello di perdere l’amicizia o la stima dell’amico, di non essere accettati, di venir giudicati male perché abbiamo osato esprimere apertamente il nostro volere, contrapponendolo a quello degli altri. Ma la verità è che ci sentiremmo meno male se il rispetto dei sentimenti e dei desideri altrui procedesse di pari passi al rispetto per i nostri sentimenti e i nostri desideri. Anche se fattori di natura sociali, primo tra tutti l’educazione che abbiamo ricevuto, sembrano quasi imporci una totale disponibilità nei confronti degli amici, colleghi e parenti, la verità è che noi abbiamo il diritto di dire no. E abbiamo il diritto di farlo senza sensi di colpa.


Say-No


Con gentilezza, educazione, ma con decisione (decisione che deriva dal riconoscimento, appunto, dei nostri diritti inviolabili), potremmo declinare inviti, decidere di non offrire nostro aiuto, rimandare un appuntamento, senza ferire i sentimenti dell’altro.
“Scusami, ma stamattina proprio ce la faccio ad uscire…che ne dici di un caffè nel pomeriggio?”
“La ringrazio per l’invito, signora, ma domenica purtroppo abbiamo organizzato una gita fuori. Ci sarà sicuramente un’altra occasione per pranzare insieme!”
“Mi dispiace, ma purtroppo sono carico di impegni…non posso aiutarti stavolta.”
“Vorrei tenerti la bambina, ma oggi lavoro e non posso. Vuoi il numero di una babysitter? Ne conosco una bravissima!”
Le fondamenta dei dieci diritti si basano sull’onestà verso noi stessi, sulla comprensione dei desideri e delle esigenze dell’altro (“Capisco che tu abbia bisogno di aiuto…”) ma anche sul riconoscimento del nostro volere e sul coraggio di esprimerlo (“…ma purtroppo oggi non posso aiutarti.”), sempre esprimendosi nel rispetto degli altri, con educazione, con delicatezza, ma senza cedere ai tentativi (consapevoli o no) di manipolazione.


say-no1


Insomma, essere assertivi non è facile. L’abilità di affina col tempo e con la pratica e, anche se all’inizio il senso di colpa ci farà sentire degli ignobili vermi, col tempo riusciremo a comprendere che l’amicizia, come tutti i rapporti con le persone significative, si basa sull’offerta spontanea, mai imposta, di aiuto, tempo, sostegno, compagnia. Il rischio è di sviluppare, col tempo, una rabbia repressa e un’ostilità nei confronti delle persone con cui volevamo essere sempre disponibili, ad ogni costo, fino ad accumulare tanto stress da esplodere. Le nostre reazioni, così eccessive, lasciano di sasso coloro che erano abituati a contare sempre su di noi.
In sintesi, ciò che potremmo imparare dai dieci diritti di Smith è che non dovremmo mai abusare dei nostri amici e del loro aiuto, e al tempo stesso non dovremmo abusare di noi stessi, della nostra generosità e disponibilità, imparando a donare il nostro tempo con spontaneità, ma sentendoci liberi di dire no quando non possiamo o non vogliamo. Solo così saremo veri amici, bravi colleghi, buoni vicini di casa e tanto altro. Solo così i nostri rapporti saranno davvero sinceri.