giovedì 14 agosto 2014

Innamorarsi è un'arte, e si impara con lo Zen

Oggi si parla d'amore e d'innamoramento, argomento a me molto caro. Lo spunto è dato dal libro "Lo zen e l'arte di innamorarsi" di Brenda Shoshanna, psicologa e psicoterapeuta newyorkese.

L'autrice mette in evidenza le analogie esistenti tra la pratica dello Zen e della meditazione e la capacità di vivere una vita d'amore. Capitolo dopo capitolo, l'autrice illustra i passi che gli studenti Zen compiono durante la pratica, dall'ingresso nello zendo (centro di pratica Zen) fino all'incontro privato con il dokusan (il maestro), passando per le altre attività apparentemente banali, come sedersi su un cuscino, preparare il cibo, fare le pulizie. Ogni singola azione compiuta nello zendo offre la possibilità di imparare una lezione: starà allo studente, poi, riuscire a comprenderla e ad applicarla nella vita di tutti i giorni alle proprie relazioni.

Nulla è banale, dunque. Nulla è fatto per caso. Lo studente che decide di imparare lo Zen deve seguire delle istruzioni, e in queste istruzioni è contenuta l'essenza dello Zen. A partire dalla primissima istruzione: togliersi le scarpe (diventare disponibili). Lo studente ripone le sue scarpe con cura e cammina scalzo. Osserva i suoi piedi e ogni suo passo viene compiuto con consapevolezza. Non si affanna a correre a destra o sinistra: sa che ogni passo compiuto, nello zendo come nella vita, avrà conseguenze, e quindi valuta attentamente dove andare. 


Gli viene chiesto di sedersi sul cuscino (incontrare se stessi), pratica apparentemente semplice. Ma sedersi e non muoversi, fondamento della pratica della meditazione, è molto più difficile di quanto possa inizialmente sembrare: la nostra mente-scimmia continua a lavorare, i pensieri si susseguono incessantemente, le ansie e le preoccupazioni si accavallano, il corpo, indolenzito, chiede di potersi muovere. Ma, con la pratica, lo studente Zen impara a tenere buona (almeno per un po'!) la mente-scimmia, a smettere di rimuginare e di perdersi in mille teorie e speculazioni. Seduti immobili sul cuscino, si sta da soli con se stessi, e gradualmente appare tutto più chiaro: gli errori commessi mille volte, sempre uguali, che hanno provocato la fine di tante relazioni, i copioni che tendiamo a ripetere, gli stessi pensieri che riemergono e avvelenano il rapporto con l'altro. Per la prima volta si crea l'opportunità di essere sinceri con se stessi, di ammettere di avere delle colpe se le nostre relazioni sentimentali sono insoddisfacenti e si impara a rompere quei circoli viziosi. 




Anche il semplice (si fa per dire!) atto di pulire gli ambienti (svuotare se stessi) riveste una grande importanza e nasconde un'insegnamento: ognuno di noi ha vissuto esperienze negative, ha sofferto per amore, è rimasto deluso o ha fatto i conti con l'abbandono. Tutto questo si accumula come fosse sporcizia. Eliminare lo sporco delle passate esperienze apre nuove possibilità di relazione, finalmente libere dal rancore, dall'amarezza, dal cinismo e dalla disillusione. 





I passi e le attività descritte dall'autrice sono molti. Mi sono limitata ad illustrarvene alcuni.
E' una lettura interessante che consiglio a chiunque abbia il desiderio di riflettere sulla relazione che sta vivendo, che è appena iniziata o che si è conclusa. Quando terminerete il libro sarete maggiormente consapevoli del fatto che molti degli effetti, positivi e negativi, che le relazioni hanno su di noi dipendono dal nostro modo di interpretare e di reagire agli eventi. Prenderete coscienza del ruolo attivo che ognuno di noi ha nel ricavare soddisfazione dal rapporto o, al contrario, nell'ottenere solo sofferenza e delusione. Comprenderete che l'amore cresce e si sviluppa in maniera sana solo quando impariamo ad accettare l'altro per ciò che è. E, in fondo, accettare gli altri per quello che sono è anche un po' accettare se stessi. Sono due percorsi paralleli che portano allo stesso risultato: l'amore, in tutte le sue forme. 

martedì 22 luglio 2014

Se non possiamo fermare le onde, allora impariamo a fare il surf!

Ho appena terminato il libro "Dovunque tu vada, ci sei già" di Jon Kabat-Zinn.
Abbiamo parlato già di lui in passato in un articolo sulla mindfulness.

Professore in medicina, Jon Kabat-Zinn è il fondatore della Stress Reduction Clinic presso l'Università del Massachusetts e il creatore del protocollo Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) per la riduzione dello stress: con Kabat-Zinn, per la prima volta, la pratica della meditazione buddhista, con gli opportuni adattamenti, viene applicata al trattamento clinico di pazienti con sofferenza cronica o debilitati dallo stress.




Il libro, davvero illuminante, rappresenta un'occasione per riflettere sulla possibilità di avvicinarsi alla pratica della meditazione. Kabat-Zinn descrive, in brevi e semplici capitoli, come coltivare la consapevolezza non solo nella pratica formale (che consiste nel restare seduti in una determinata posizione per diverso tempo) ma anche nella pratica informale, ovvero in centinaia di attività quotidiane, come cucinare, fare le pulizie, badare ai propri figli, salire le scale, camminare, stare seduti davanti al caminetto.

Non è mia intenzione recensire il libro, ma semplicemente riportarvi alcuni frammenti tratti da uno dei capitoli che ho più apprezzato: "Se non potete arginare le onde, imparate il surf".

"Le persone che vengono nella nostra clinica imparano presto che lo stress è una componente inevitabile della vita. Pur essendo vero che possiamo imparare, grazie a scelte intelligenti, a non peggiorare la situazione in svariati modi, vi sono cose su cui abbiamo scarso o nessun controllo. Lo stress fa parte nella natura umana (...) ma questo non significa che dobbiamo soccombere a forze più grandi di noi. Possiamo apprendere a lavorare con esse, comprenderle, trovare significati, fare scelte determinanti e sfruttare la loro energia per crescere con forza, saggezza e compassione."




"Immaginiamo la nostra mente come la superficie di un lago o di un oceano. Vi sono sempre delle onde, a volte grosse, a volte piccole e a volte quasi impercettibili (...) Allo stesso modo in cui non è possibile stendere una lastra di vetro sull'acqua per calmare le onde, non si possono sopprimere artificialmente le onde mentali e non sarebbe intelligente farlo. Si creerebbero unicamente nuove tensioni e conflitti interiori, non la calma".



Questa metafora ci riporta direttamente ad una delle strategie di mindfulness utilizzate sia nella gestione degli impulsi (come ad esempio l'impulso ad assumere droghe, alcool, ad abbuffarsi o a farsi del male) sia nel training di prevenzione delle ricadute: l'urge surfing.



La tecnica dell'urge surfing ("fare surf sullo stimolo") si basa sul principio secondo cui ogni impulso è, per sua natura, limitato nel tempo e tende a ridursi gradualmente fino a scomparire. Le spinte all'azione (come assumere sostanze o abbuffarsi), se non soddisfatte, raggiungono presto un picco di intensità, per poi calare di intensità e sparire. Tentare di combattere gli impulsi non fa che alimentarli e intensificarli. La tecnica dell'urge surfing prevede che il paziente cavalchi il proprio impulso, finché non si esaurisce. Verrà istruito ad osservarlo mentre cresce di intensità, a tollerarlo, a notare come va e viene, proprio come un'onda. Dopo due o tre ondate, l'impulso perderà forza e l'onda andrà ad infrangersi. Il mare, poi, si placherà.

Applicata prima ad impulsi deboli e poco dannosi, la tecnica verrà gradualmente applicata dal paziente ad impulsi più intensi ed entrerà nel repertorio di strategie sua disposizione.




La tecnica del "fare surf sullo stimolo" è, ovviamente, utile ad ognuno di noi e può essere facilmente applicata nella vita di tutti i giorni quando un impulso ad agire diventa pressante. Qualche respiro profondo e poi si resta in osservazione, sentendo l'impulso crescere e diminuire, con ondate via via meno forti. Accettare l'esistenza dell'impulso, osservarlo e tollerarlo, certi che svanirà molto presto, può aiutarvi ad affrontarlo in modo efficace.


Allora, vi va di provare a lanciarvi con la vostra tavola alla prossima onda?
In fondo è estate...quale miglior periodo per imparare a surfare?


sabato 5 luglio 2014

I mostri sull'autobus

Questo brano, modificato in parte, è tratto da Hayes, Strosahl e Wilson (1999)

Immagina di essere l'autista di un autobus. E' un autobus molto importante, perché rappresenta tutta la tua vita. Ne sei al comando, scegli tu la destinazione e la velocità di marcia. che direzione prendere ad ogni incrocio e ogni possibile deviazione dal percorso originario. Tutte le tue esperienze, le scelte fatte, le sfide superate e le tue qualità ti hanno portato a ricoprire questo ruolo importante: quello del conducente della tua vita.
Il tuo obiettivo è portare l'autobus a destinazione. Ogni metro percorso verso il punto d'arrivo segnala come tu abbia preso la direzione giusta.
Ma, come ogni conducente d'autobus, devi fermarti lungo il percorso per far salire dei passeggeri. Alcuni passeggeri sono difficilmente gestibili. Anzi, se li osservi bene, noterai che sono effettivamente dei mostri. I mostri rappresentano tutti i pensieri e le emozioni difficili con cui hai dovuto fare i conti nella tua vita, le autocritiche, le sensazioni di panico, le paure e le preoccupazioni incessanti per ciò che potrebbe accadere in futuro.
Tutto ciò che ti distrae dalle infinite opportunità che la vita ti offre assume la sembianza di un mostro.
I mostri rendono il tuo compito molto complicato: non è facile guidare con loro a bordo, poiché sono indisciplinati e chiassosi. Ti insultano e ti colpiscono con la cerbottana, gridandoti "Sei un perdente!", "Ferma l'autobus, tanto non arriverai mai a destinazione!", "Non serve a niente andare avanti!" e così via.
Insomma, non è facile, in queste condizioni, procedere verso il tuo obiettivo.
Allora tu pensi di fermare l'autobus per dirgliene quattro, ma questo ritarderebbe il raggiungimento del capolinea.
Oppure potresti fermarti e costringerli a scendere, ma anche questo ci allontanerebbe dal nostro obiettivo.
Potresti cambiare il tragitto e imboccare una strada diversa da quella prevista, sperando che i mostri si zittiscano, e questo, ancora una volta, renderebbe più complicato proseguire verso il nostro traguardo.
Mentre pensavi a come gestire i mostri, ti sei distratto e hai sbagliato strada. Ora devitornare indietro e fare una serie di deviazioni. Inoltre, hai accumulato del ritardo sulla tabella di marcia.
Ora capisci come, per andare dove vuoi andare e per percorrere la strada che hai scelto, tu debba semplicemente continuare a guidare e permettere ai mostri di continuare a fare baccano, di insultarti e di darti fastidio per tutto il tempo. Puoi creare uno spazio per accogliere tutto il rumore che fanno i mostri, ma non puoi sbatterli fuori o zittirli.
Puoi, però, continuare a guidare, e vivere in modo significativo e appagante, nonostante la loro presenza. Basta accettarli per quelli che sono: semplici passeggeri. 



giovedì 26 giugno 2014

La Meditazione di Amorevole Gentilezza

Immaginiamo di sentirci tristi e sfiduciati e di confidarci con un amico che ci vuole bene. Proviamo a pensare al calore che le sue parole di conforto riescono a donarci. La compassione, l'empatia, l'ascolto non giudicante e la sensibilità alleviano il nostro dolore e ci rendono più fiduciosi sulle nostre capacità di affrontare le difficoltà.


Contrariamente a ciò che comunemente si crede, la compassione non necessariamente deve provenire da un'altra persona. Spesso, infatti, sottovalutiamo il valore della compassione che possiamo provare per noi stessi.



Tra le tecniche cognitivo-comportamentali di terza generazione (la cosiddetta terza onda della TCC) una posizione di rilievo è occupata dal training mentale per lo sviluppo della mente compassionevole.

Paul Gilbert ha sviluppato la Compassion-Focused Therapy (CFT) che attinge in parte anche alle pratiche buddhiste. Le tecniche proposte possono essere applicate nel corso della terapia cognitivo-comportamentale o essere liberamente utilizzate da tutti coloro che desiderano sviluppare la capacità di provare compassione per se stessi e per gli altri.


In questo articolo parleremo in particolare di una forma di meditazione che fa parte delle tecniche tratte dalla CFT: si tratta della meditazione metta, o meditazione di amorevole gentilezza.









La tecnica


La parola metta nella lingua Pali può essere tradotta con l'espressione "gentilezza amorevole" ed indica un atteggiamento di bontà, cura e amore per ogni essere vivente.
La meditazione metta, se svolta regolarmente ogni giorno per circa 20-30 minuti, favorisce lo sviluppo della compassione verso tutte le creature della Terra, partendo da noi stessi, fino ad arrivare alle persone per cui proviamo rabbia o rancore.
Si tratta di una forma di meditazione antichissima, praticata da più di duemila anni.



I passi da seguire sono pochi. Si tratta, in realtà, di una tecnica estremamente semplice, ma che apporta benefici psicofisici notevoli se praticata per lunghi periodi.

I passaggi


Il luogo e la posizione 


Come in tutte le forme di meditazione, il primo passo è trovare l'ambiente adatto. Il luogo deve essere tranquillo, silenzioso, lontano da fonti di distrazione.
Troviamo la posizione più comoda: possiamo sederci su una sedia con i piedi che toccano il pavimento, sdraiarci su una coperta, camminare in un luogo tranquillo o sederci su un cuscino con le gambe incrociate. L'importante è essere comodi, a proprio agio e al riparo da distrazioni.



Iniziamo con dei respiri...


Il passaggio successivo consiste nel respirare in maniera naturale. I respiri non devono seguire un ritmo preciso. L'importante è che il flusso dell'aria entri ed esca dal nostro corpo in maniera naturale, senza forzature. Sciogliamo le spalle, le braccia, il collo. Il corpo è rilassato, i muscoli non sono contratti, gli occhi preferibilmente vengono chiusi, la schiena è dritta ma non rigida.



La ricerca della felicità


Fermiamoci un attimo a riflettere sul fatto che gli uomini di ogni epoca storica hanno ricercato la felicità. Da millenni le persone provano il desiderio di ricevere amore, bontà, compassione. E' una ricerca che ci accomuna, poiché anche noi, come tutti, tendiamo naturalmente alla felicità e cerchiamo di sfuggire al dolore. Dentro ognuno di noi c'è una motivazione innata a ricevere l'affetto degli altri.


Noi meritiamo l'amore. Come tutti.


Visualizziamo l'immagine di noi stessi da piccoli: eravamo innocenti, bisognosi di protezione e meritevoli d'amore incondizionato. Ebbene, lo siamo anche oggi. Meritiamo l'amore, il bene, la compassione. Proviamo a pensare a questo: il mondo è pieno d'amore e una parte di quell'amore è per noi.




La preghiera metta


A questo punto iniziamo a ripetere silenziosamente le seguenti frasi, seguendo il ritmo del respiro:

Che io possa essere pieno di amorevole gentilezza
Che io possa vivere sereno e in pace
Che io possa stare bene
Che io possa essere felice



Non è necessario utilizzare esattamente queste parole. Ognuno di noi è libero di scegliere le frasi che meglio esprimono l'augurio che desideriamo fare a noi stessi.
Continuiamo a ripeterle in silenzio. Ma soprattutto, sforziamoci di crederci. Noi davvero meritiamo la serenità, la pace, l'amore, la salute, la felicità. Auguriamoci tutte queste cose con sincerità e con gioia, come potremmo augurarle ad un caro amico per il quale desideriamo ogni bene.



Estendiamo l'augurio alle altre persone...


Dopo alcuni minuti, auguriamo le stesse cose ad una persona cara: un amico, un parente, una persona a cui vogliamo bene. Ripetiamo in silenzio: 

Che tu possa essere pieno di amorevole gentilezza
Che tu possa vivere sereno e in pace
Che tu possa stare bene
Che tu possa essere felice







Poi estendiamo l'augurio anche alle persone che non conosciamo bene ma che fanno parte della nostra vita: colleghi di lavoro, vicini di casa, la commessa del supermercato, il farmacista, il panettiere. Ripetiamo:

Che voi possiate essere pieni di amorevole gentilezza
Che voi possiate vivere sereni e in pace
Che voi possiate stare bene
Che voi possiate essere felici




Auguriamo queste cose anche alle persone che non conosciamo affatto, a quelle che forse non incontreremo mai, che vivono in un altro continente. Auguriamo il meglio all'umanità intera, ad ogni essere vivente della Terra.



Ora arriva la parte più difficile: augurare la felicità ai nostri nemici. Pensiamo alle persone per cui proviamo rancore, che provocano in noi sentimenti di rabbia. Mettiamo da parte l'ostilità e proviamo a vederli come esseri viventi degni di amore e compassione, esattamente come lo siamo noi, esattamente come lo sono tutti. Ripetiamo: 

Che tu possa essere pieno di amorevole gentilezza
Che tu possa vivere sereno e in pace
Che tu possa stare bene
Che tu possa essere felice




Potrebbe non essere facile all'inizio. Procediamo per tentativi: se risulta troppo doloroso o richiede uno sforzo troppo grande, fermiamoci e riconosciamo a noi stessi il merito di averci almeno provato. Il giorno dopo ritenteremo, sempre gradualmente.


A questo punto la meditazione è terminata. Sempre respirando apriamo gli occhi e abbandoniamo l'esercizio.


Sorridete: avete appena augurato la felicità al mondo intero! Da qualche parte nel mondo un'altra persona, meditando allo stesso modo, ha augurato la felicità anche a voi. 





domenica 1 giugno 2014

"Non mi capisce nessuno!". Quando le emozioni non vengono riconosciute.

La sensazione di essere compresi, sostenuti e appoggiati dagli altri è appagante. Sentire che le nostre emozioni e i nostri bisogni sono accettati ci fa sentire accolti e in sintonia con gli altri. In alcune fasi della nostra vita, il bisogno di essere capiti diventa più forte. Sentiamo l'esigenza di veder riconosciute le nostre paure, le nostre ansie e il nostro dolore. Questo, purtroppo, non sempre accade.



"Non mi capisce nessuno!". Chi non lo ha mai pensato almeno una volta? Chi non si è sentito terribilmente incompreso almeno in un'occasione?

Cosa succede? Siamo davvero circondati da persone egoiste e senza cuore, incapaci di provare empatia, o c'è un problema di comunicazione alla base?
Siamo davvero vittime dell'insensibilità altrui o siamo in parte responsabili di queste incomprensioni?




L'articolo di oggi affronta il tema della validazione, ovvero del riconoscimento e della legittimazione delle emozioni provate da un'altra persona. Un concetto vicino a quello di empatia, che si riferisce invece al rispecchiamento delle emozioni altrui, che si ottiene mettendosi nei panni degli altri, fino a provare le stesse emozioni.
Cercheremo di capire cosa c'è all'origine del bisogno di essere compresi e del fallimento della ricerca di validazione. Inoltre, esamineremo le strategie messe in atto da ognuno di noi per ottenere il riconoscimento delle nostre emozioni, distinguendo quelle disfunzionali da quelle adattive.


C'era una volta un bambino con le sue emozioni...


All'origine del processo di validazione c'è, come è facile immaginare, il rapporto tra il bambino e la madre o, in mancanza di quest'ultima, di un adulto significativo. Il bambino, dunque, fin dalla nascita entra in sintonia con una persona, denominata caregiver, che ne riconosce le paure, il dolore, la sofferenza, e che risponde a queste emozioni in maniera più o meno adeguata. Gli studi di Bowlby hanno dimostrato come il bambino sia geneticamente predisposto a sviluppare un rapporto significativo con un'unica persona e come questo legame sia fondamentale per il futuro sviluppo dell'individuo.   


Le capacità del genitore di accudire il bambino e di rispondere alla sua sofferenza saranno alla base dello sviluppo di credenze come "Il mio dolore può essere placato", "Gli altri capiscono ciò che provo" e "Le mie emozioni hanno un senso". Se, al contrario, la madre non è in grado di riconoscere le emozioni del bambino o, addirittura, tenta di reprimerle, la credenza che si svilupperà sarà "Il mio dolore non può essere sanato" e "Gli altri non possono capire ciò che provo".




Le strategie maladattive per ottenere validazione...


A volte ci aspettiamo che gli altri ci comprendano perfettamente, che riescano ad entrare in sintonia con noi e a capire le emozioni che proviamo senza alcun problema. Ciò non avviene sempre, e potrebbe in parte avvenire perché noi non siamo in grado di farci capire.
La responsabilità, insomma, potrebbe essere anche un po' nostra.

Nel corso del tempo può succedere di sviluppare strategie maladattive per ottenere il sostegno degli altri: lamentarci continuamente, piagnucolare, esagerare le nostre emozioni, ripetere sempre le stesse cose, accusare o punire gli altri, arrabbiarci, minacciare di andarcene, diventare aggressivi, tenere il broncio, mettere in atto comportamenti autolesivi.

Quante volte abbiamo sentito qualcuno dire "Sono anni che ripeto le stesse cose, ma non mi capiscono mai! Mi lamento tutto il giorno, ma nessuno capisce ciò che provo!". Bene, è evidente che la strategia utilizzata per ottenere validazione (la ripetizione, la lamentela) non è la più adatta. 



In realtà tutti questi comportamenti non sono che richieste di aiuto, grida di allarme, disperati tentativi di ottenere attenzione e sostegno dagli altri. Il problema, purtroppo, è che questi comportamenti tendono a peggiorare i rapporti e ad allontanare le persone.

Cosa fare, dunque, fare per farci capire?


...e le strategie adattive


Ancora una volta, parlare con calma e chiarezza è il primo passo. Un'altro passo è quello di chiedere agli altri di riformulare cosa abbiamo detto, in modo da assicurarci che abbiamo capito. "Potresti ripetermi ciò che ti ho detto? Ho la sensazione di non essere ascoltato".

Un'altra strategia utile è esprimere con tranquillità e gentilezza cosa l'altro potrebbe fare per farci sentire meglio. 
Ridurre le lamentele e i piagnistei e sostituirli con confronti chiari e pacifici non è facile, ma vale la pensa di fare uno sforzo e tentare.


Un altro metodo molto efficace per facilitare la comprensione dei nostri stati d'animo è ringraziare la persona che ci sta ascoltando per il tempo dedicato a noi. "Ti ringrazio. So che mi sto lamentando, ma sto davvero giù. Sei gentile ad ascoltarmi, lo apprezzo davvero tanto!". La riconoscenza per la disponibilità offerta gratifica l'altra persona, la fa sentire apprezzata, la rende più disponibile ad ascoltarci e consolida il rapporto. Inoltre, offrire il nostro tempo e ascoltare anche le lamentele altrui, invece di pretendere di essere solo noi quelli in diritto di lagnarsi, non potrà che fare bene ai rapporti interpersonali. 



Nonostante tutti questi tentativi, purtroppo, gli altri potrebbero continuare a non capirci e a non riconoscere le nostre emozioni. Purtroppo a volte dobbiamo arrenderci! In questi casi, l'accettazione è la strada da percorrere. Accettare, cioè, che a volte non si è compresi, che gli altri non vogliono capirci, o non sono in grado di farlo a causa dei loro limiti. Potremmo allora provare sforzarci di pensare che, per quanto sia bello essere compresi, non è in realtà necessario e fondamentale. Potremmo provare a risolvere i nostri problemi da soli, a cavarcela senza l'aiuto degli altri, oppure cercare di fare nuove amicizie, cercando di circondarci di persone più comprensive e disposte ad ascoltarci. 

Come dice il detto, non tutti i mali vengono per nuocere: forse queste incomprensioni potrebbero addirittura fungere da stimolo e da occasione per ristrutturare il nostro modo di rapportarci agli altri, dando una svolta alla nostra vita. Imparare a comunicare meglio, a lamentarci di meno, a parlare con chiarezza, a chiederci se anche gli altri hanno emozioni che devono essere riconosciute, allargare il nostro giro di amicizie, costruire legami più intensi e sani.



Il cambiamento, come sempre, inizia dall'interno: osserviamoci, chiediamoci se stiamo sbagliando qualcosa, pensiamo a modi alternativi di ottenere ciò che vogliamo. 

E ricordiamo sempre se, anche se a volte le persone che ci circondano sembrano non dare ascolto alle nostre emozioni, ognuno può trovare in se stesso il suo migliore amico: ascoltiamoci, accogliamo le nostre emozioni, diamo un senso ai nostri bisogni, concediamoci uno spazio per esprimere ciò che proviamo. 



sabato 26 aprile 2014

La via più breve per l'infelicità: le doverizzazioni.

Pochi termini presenti nel nostro vocabolario sono pericolosi quanto la parola devo.
Nel corso delle nostre giornate questa parola emerge più volte in maniera quasi automatica, del tutto inconsapevolmente.
Devo fare bella figura. 
Non devo lasciare che gli altri si prendano gioco di me. 
Una donna deve farsi rispettare. Non deve permettere agli uomini di usarla.
Le persone non devono infastidirmi.
Si chiamano doverizzazioni: sono delle affermazioni che includono un imperativo o un'idea su come noi o gli altri dovremmo comportarci e delle previsioni catastrofiche sulle conseguenze che si verificherebbero se tali aspettative fossero insoddisfatte.
Devo fare un buon lavoro. Non devo sbagliare. Sarebbe davvero terribile se succedesse!
Le doverizzazioni sono state a lungo indagate da Albert Ellis, ideatore della terapia razionale-emotiva (RET). Le doverizzazioni e la RET sono l'argomento di cui parliamo oggi.


Emozioni e pensieri: processi distinti o sovrapposti?


Comunemente le emozioni e i pensieri sono considerati due processi assolutamente contrapposti: da una parte c'è la spontaneità e l'immediatezza della dimensione emotiva, dall'altra la mente razionale con le sue produzioni.

Albert Ellis nel 1955 ideò e sviluppò la terapia razionale-emotiva (RET), definita così proprio perché basata sull'assunto secondo cui pensiero e emozioni non sono processi distinti, ma sovrapposti, e per certi versi identici. 
"Il tema centrale della RET è che l'uomo è un animale singolarmente razionale, ma anche singolarmente irrazionale, che i suoi disturbi emotivi o psicologici sono ampiamente il prodotto dei suoi pensieri illogici o irrazionali, e che egli può liberarsi di quasi tutti i suoi disturbi, infelicità e inefficienza emotivi o mentali se impara a massimizzare i suoi pensieri razionali e a minimizzare quelli irrazionali." (Ellis 1962)
In sintesi, secondo Ellis, sarebbe il modo irrazionale di pensare a determinare gli stati emotivi spiacevoli. L'infelicità e i disturbi emotivi sono il prodotto non degli eventi in sé, ma del modo in cui l'individuo li interpreta. Le idee irrazionali portano l'uomo a sviluppare ansie, sensi di colpa, inibizioni, perdita di controllo e profonda insoddisfazione. Questo, a sua volta, determinerebbe comportamenti disfunzionali.

Il concetto, in realtà, era stato già sviluppato fa alcuni filosofi, tra cui Epitteto, che nel I secolo d.C. scrisse nel Manuale (Enchiridion)
"L'uomo è agitato e turbato non tanto dalle cose, ma da ciò che egli pensa sulle cose".
 Secoli dopo, questo sarebbe diventato il principio cardine della terapia cognitivo-comportamentale.

Imparare a pensare in modo razionale si può!


Se la sofferenza emotiva è causata dall'irrazionalità del nostro nostro modo di pensare, è possibile vivere meglio cambiando il modo in cui pensiamo? A quanto pare, sì.

Secondo Ellis, il segreto sta nel riconoscere le convinzioni errate che possediamo, identificare le idee irrazionali che emergono automaticamente ogni giorno e modificarle, da soli o con l'aiuto di uno psicoterapeuta.

Ellis ha identificato 11 idee irrazionali e illogiche molto diffuse nella società occidentale. Vediamole insieme.


1.Si deve essere sempre amati o apprezzati da tutte le persone significative.


In realtà, non è assolutamente necessario essere amati da tutti quelli ci circondano, oltre ad essere un'impresa assolutamente impossibile. Per quanto possiamo sforzarci di apparire gentili, disponibili e adorabili, ci sarà sempre qualcuno che, per qualche motivo, ci troverà antipatici e odiosi, oppure, semplicemente, ci troverà talmente poco interessanti da ignorarci. 
Non avere l'approvazione o l'amore di una persona potrà essere frustrante e dispiacerci, ma non sarà così catastrofico e dannoso. Ellis ci invita a non cercare di ottenere l'amore degli altri in maniera frenetica, ma in modo intelligente e calmo: uno dei modi migliori di ottenere l'amore, dice Ellis, è offrirlo sinceramente.




2. Si deve essere sempre bravi, competenti e vincenti per essere considerati degni di valore.
Ancora una volta, oltre a non essere necessario, è impossibile eccellere in tutte (o quasi) le cose. Cercare di essere abbastanza bravi in qualcosa è, secondo Ellis, un obiettivo molto più sano, perché perché permette di impegnarsi senza imporsi riuscire bene ad ogni costo, condannandosi all'ansia e al senso di vergogna di fronte agli inevitabili fallimenti. Il continuo confronto con gli altri, inoltre, genera una competizione senza fine che ci porta a perdere di vista i nostri obiettivi originari.
Secondo Ellis, il nostro valore estrinseco (attribuito, cioè, dagli altri alle nostre prestazioni) non va confuso con il nostro valore intrinseco (il valore che noi possediamo indipendentemente dalle nostre performance, che possono essere buone o cattive). Noi possiamo essere buone persone, anche senza essere eccellenti.



3. Certe persone sono cattive, perfide e infami e meritano di essere condannate e punite.
Spesso pensiamo che una persona, essendosi comportata male con noi, sia senza alcun ombra di dubbio cattiva, malvagia, crudele, e che il solo modo di impedirle di comportarsi di nuovo male sia punirla, condannarla, denigrarla. Secondo Ellis, questa idea è irrazionale per diversi motivi. Prima di tutto, i criteri per valutare la gravità di un gesto variano da persona a persona, e ciò che è imperdonabile per noi potrebbe non esserlo per un altro. Inoltre, il semplice fatto che abbiano compiuto un'azione che ha causato un danno a noi o ad altri non fa di loro necessariamente delle persone crudeli, immorali o mentalmente instabili. Ellis suggerisce di modificare questa idea irrazionale, provando a vedere queste persone come individui che hanno commesso un'azione indesiderata: una cattiva azione non rende cattivi. Inoltre, punirli o denigrarli, come ci insegna l'esperienza, spesso non riduce la possibilità che il comportamento indesiderato si ripeta. La cosa migliore da fare, dice Ellis, è capire che gli errori si fanno spesso per stupidità o ignoranza. Bisogna accettare la gente quando è stupida, continua Ellis, e aiutarla quando è ignorante.


4. É terribile e catastrofico se le cose non vanno come vogliamo.
L'idea è irrazionale perché, semplicemente, le cose vanno come vanno, e, per quanto questo possa essere fastidioso o ingiusto, l'esserne perennemente e profondamente disturbati non cambierà lo stato dei fatti.
Invece di lasciarci turbare in maniera esagerata dalle circostanze della vita, potremmo provare a riconoscere che sarebbe bello se le cose fossero diverse, che preferiremmo che le cose cambiassero, che non ci piace lo stato attuale ma che non serve a niente catastrofizzare, drammatizzare ed avere un atteggiamento perennemente ostile e arrabbiato.
Le situazioni spiacevoli possono essere modificate con un po' di impegno. Se questo fosse possibile, lamentarsi e perpetuare lo stato di frustrazione non ci aiuterà. Accettarle la realtà, per quanto spiacevole, servirà almeno a non esasperarle, fino a renderle doppiamente fastidiose.


5. La sofferenza umana dipende solo da cause esterne e noi non possiamo fare nulla per controllare le nostre emozioni.
Milioni di persone in tutto il mondo sono fermamente convinte che la fonte di ogni sofferenza sia da ricercare negli eventi o nelle altre persone. Eppure, se ci riflettiamo, salvo alcuni casi in cui gli eventi ci procurano un reale danno fisico o grave privazione, nella stragrande maggioranza dei casi ciò che ci fa soffrire sono degli attacchi di tipo psicologico che non sono nocivi di per sé, ma per il significato che noi attribuiamo ad essi. Litigare con un amico, essere disapprovati da chi ci circonda, essere carichi di lavoro, non è dannoso di per sé, ma per l'interpretazione che ne diamo. Se un amico è freddo con noi, ciò ci ferisce perché lo interpretiamo come un segnale che lui si sta allontanando da noi e potremmo perderlo. In realtà, la sua freddezza non ci ha concretamente danneggiati. Ellis ci suggerisce di riflettere sul fatto che spesso siamo noi a rendere terribili, catastrofiche e drammatiche delle situazioni che sono al massimo fastidiose o indesiderabili.


6. Se qualcosa è o può essere pericoloso bisogna preoccuparsene enormemente e pensarci in continuazione.
L'ansia e la preoccupazione costante per un un evento spiacevole che potrebbe verificarsi potrebbe erroneamente sembrare un modo per prepararsi meglio all'eventualità che si realizzi, in modo da reagire prontamente. In realtà, nella nostra vita buona parte delle preoccupazioni ha raramente un carattere preventivo. Al contrario, spesso l'ansia eccessiva ci rende incapaci di affrontare al meglio la situazione pericolosa, qualora dovesse realizzarsi. Non solo: in alcuni casi è proprio l'ansia a determinarla, come ad esempio quando il timore di sbagliare un compito ci manda nel panico, compromettendone il risultato. Altri eventi, come le malattie e l'invecchiamento, sono inevitabili: pensarci continuamente non ci farà vivere giovani per sempre. Sarebbe utile invece dire a se stessi "Sarebbe davvero una gran seccatura se questa cosa si realizzasse, certo, ma non sarebbe poi così drammatica e terribile: in un modo o nell'altro, la saprei affrontare".


7. É meglio evitare certe difficoltà e responsabilità piuttosto che affrontarle.
Riuscire a vivere sfuggendo alle difficoltà e responsabilità sembrerebbe essere il segreto di una vita felice. Incredibilmente non è così. Per Ellis l'idea è irrazionale per una serie di motivi. Prima di tutto, sottrarsi con la fuga ad una situazione problematica è piacevole nell'immediato. Il sollievo dura per un po' di tempo, al termine del quale la persona potrebbe ritrovarsi ad affrontare le conseguenze e i fastidi della sua decisione. Ellis propone l'esempio di un uomo indeciso se baciare o meno la ragazza che ha di fronte: temendo un rifiuto, decide di non baciarla. Il sollievo è immediato, ma dopo poco inizierà a chiedersi se non ha perso un'occasione importante e il dubbio potrebbe renderlo infelice per ore, settimane, mesi o forse addirittura anni. Le nostre paure, se non affrontate, tendono ad ingigantirsi, poiché non mettiamo alla prova le nostre capacità di cavarcela in diverse situazioni. Le fughe donano un piacere breve e, quando il sollievo sfuma, resta l'insoddisfazione e una paura ancora più forte.


8. Bisogna per forza dipendere dagli altri e avere qualcuno di più forte su cui contare.

Dipendere dagli altri è una scelta irrazionale per una serie di motivi. Più ci affidiamo agli altri e più saremo costretti a rinunciare ai nostri sogni e desideri, a causa del pressante bisogno di aiuto che abbiamo e della paura di perderlo. Acconsentiremo, pertanto, a ciò che gli altri desiderano da noi. Dipendere dagli altri, lasciarci manipolare, guidare, spingere in una direzione o nell'altra, ci impedisce di agire da soli, di metterci alla prova, di imparare e, quindi, di crescere. Perderemo fiducia in noi stessi invece di aumentarla, ci sentiremo col tempo sempre più fragili e dipendenti, in un circolo vizioso difficile da spezzare. L'aiuto delle persone da cui dipendiamo, poi, non è necessariamente eterno: non possiamo dipendere dai genitori per sempre, perché prima o poi verranno a mancare. Allo stesso modo, non possiamo dipendere dal nostro partner, perché non è da escludere la possibilità che un giorno ci lasci e vada via.
Ellis ci invita ad accettare il fatto che, da un certo punto di vista, ogni individuo è "solo" al mondo: gli amici e la famiglia saranno al suo fianco, certo, ma, quando le difficoltà della vita compaiono, solo lui conoscerà i suoi desideri, i suoi bisogni, e solo lui potrà affrontare i suoi problemi. Non è così terribile essere indipendenti e autonomi: la capacità ci cavarsela da soli consente di crescere, di migliorare e di sviluppare una sana autostima.




9. Ciò che ci è accaduto in passato continuerà ad influenzare per sempre il nostro comportamento e la nostra vita.

Se una certa cosa ha influenzato la nostra vita in passato, continuerà a farlo per sempre? Molte persone, a quanto pare, pensano che sia così. Ellis evidenzia gli elementi di irrazionalità presenti in questa convinzione. Prima di tutto, solo perché una cosa si è rivelata vera in passato, non è detto che sarà sempre vera in ogni circostanza. Se affidarci ai consigli dei nostri genitori in passato si è rivelata una saggia decisione, permettendoci di fare la scelta più giusta, questo non vuol dire che per tutta la vita ci rimetteremo nelle loro mani per prendere qualsiasi decisione. Molto spesso, inoltre, attribuire una grande influenza al passato è un modo furbo per non cambiare le nostre brutte abitudini: esagerando l'importanza che le esperienze precoci hanno avuto su di noi, rischiamo di avere una buona scusa per continuare a comportarci così. "Ho fatto sempre così, fin da giovane, e ormai è troppo tardi per cambiare". In realtà, dice Ellis, per quanto il passato sia importante e influenzi in parte il nostro comportamento, questo non vuol dire che non abbiamo la possibilità di cambiare le cose, di stravolgere le nostre abitudini edi crearne di nuove, più funzionali.


10. Dobbiamo sconvolgerci terribilmente per i problemi e i disturbi degli altri.

Molte volte il semplice fatto che gli altri si comportino in un modo che noi disapproviamo ci turba terribilmente. Restiamo sconvolti dal modo in cui nostra cognata tratta nostro fratello, ad esempio. I suoi modi, freddi e decisi, ci sembrano eccessivi e non riusciamo a non esserne infastiditi. Consideriamo quel comportamento sbagliato, e ne siamo turbati. Ellis sostiene che molto spesso sconvolgerci per il comportamento degli altri ci distoglie da qualcosa molto più importante: osservare il nostro comportamento. Il pensare continuamente al comportamento fastidioso degli altri non cambierà le cose e ci renderà solo nervosi e irritati. Inoltre, non è detto che quel comportamento che tanto disapproviamo sia davvero sbagliato: forse nostra cognata sa che solo rivolgendosi a suo marito con un tono deciso riesce a farsi ascoltare e che questo trucco le evita infinite discussioni, litigi e sofferenze per lei e per lui. Ellis ci invita a chiederci se vale davvero la pena giudicare il comportamento degli altri e se non sarebbe meglio badare a noi stessi. Quando una persona a noi cara si sta comportando davvero male, invece di limitarci a disapprovarla e a lamentarci, non sarebbe più utile suggerirle con gentilezza e dolcezza un modo alternativo di comportarsi? Se poi i nostri suggerimenti non fossero apprezzati, ancora una volta non resta altro da fare che accettare il comportamento altrui.


11. C'è sempre una soluzione giusta e perfetta per tutti i problemi ed è una catastrofe non riuscire a trovarla.

Trovare la soluzione perfetta ad ogni problema è impossibile per la semplice ragione che le soluzioni perfette non esistono. Cercarle può creare solo aspettative irrealizzabili e una inevitabile insoddisfazione. Il perfezionismo estremo rende la soluzione di un problema più complicata, mentre sarebbe molto più saggio limitarsi a valutare le possibili soluzioni e scegliere la più attuabile. La scelta fatta potrebbe in ogni caso rivelarsi sbagliata, nonostante le valutazioni fatte: errare è umano, gli sbagli sono inevitabili ma nulla come i tentativi e gli errori permette alle persone di di crescere. 



In conclusione...



Tutte le idee irrazionali di cui abbiamo parlato rimandano a tre DOVERIZZAZIONI DI BASE:
  • Doverizzazioni su se stessi: devo agire bene, essere approvato da tutti, altrimenti sarà terribile
  • Doverizzazioni sugli altri : gli altri devono trattarmi bene ed agire come io ritengo che debbano agire, altrimenti meritano di essere puniti
  • Doverizzazioni sulle condizioni di vita: le cose devono andare come voglio io, altrimenti la vita sarà terribile


Ora è più facile comprendere perché la parola devo è così pericolosa. Sono queste doverizzazioni, secondo Ellis, a renderci infelici.
Modificarle si può. Da soli, o rivolgendosi ad uno psicoterapeuta, sarà possibile estinguere i pensieri disfunzionali e negativi e sostituirli con altri. Col tempo potremo imparare a non cadere nelle trappole delle idee irrazionali. Sarà un nuovo importante passo verso la nostra felicità.



Libri consigliati:
Albert Ellis "Ragione ed emozione in psicoterapia" ed. Astrolabio

sabato 19 aprile 2014

La costruzione di un amore. Quando volersi bene non basta - parte 1

"Quando c'è l'amore, c'è tutto. Non serve altro."
E' una delle affermazioni che abbiamo sentito ripetere più spesso. Quando si parla di relazioni, l'opinione diffusa è che l'amore sia sufficiente al funzionamento di un rapporto. Ma è davvero così? Le coppie innamorate non vanno incontro a periodi di crisi? Può il forte sentimento che lega due persone garantire una pacifica e soddisfacente vita insieme?

Oggi inauguriamo un ciclo di articoli sulla terapia di coppia.


C'era una volta l'infatuazione


Tutto iniziò con un colpo di fulmine, o qualcosa di simile. Lui conosce lei, e la vede stupenda. Lei lo osserva, e lo trova brillante. I difetti sono sfumati, quasi impercettibili, a volte addirittura adorabili. I pregi sono ingigantiti, sopravvalutati. Lui è perfetto, lei è perfetta. Tutto funziona come un meraviglioso meccanismo bel oliato. L'infatuazione è per definizione destinata a durare poco, lasciando al suo posto la necessità di confrontarsi, per la prima volta, con una persona vera, in tutta la sua "realtà". 


Dopo i confetti escono i difetti


E' opinione diffusa che dopo il matrimonio le coppie si ritrovino a dover affrontare la sconcertante realtà dei fatti: la persona che hanno sposato è molto diversa da come era sembrata in precedenza, e le conseguenze sono spesso devastanti. Ma è davvero così? 


Fermiamoci un attimo...


Arrivati a questo punto ci interrompiamo per fare una serie di precisazioni: in questa sede, prima di tutto, ci riferiamo alle coppie sposate per comodità, ma i principi di cui parleremo possono essere applicati a tutte le persone che stanno insieme, siano essi fidanzati, conviventi e coniugi. In secondo luogo, non vogliamo tristemente smontare la visione idilliaca e romantica dell'amore, evidenziandone con cinismo gli aspetti più oscuri. 
Poche esperienze, nella vita, sono emozionanti e significative come l'innamoramento. L'amore sconvolge, infiamma, trasforma, fa crescere, regala momenti di rara intensità, permette di condividere esperienze rendendole ancora più importanti, dona sicurezza e tranquillità.
Ma non solo, e non sempre.
Qui parliamo di quelle difficoltà che emergono nella vita di coppia, fatte di incomprensioni, di errori di comunicazione, di fraintendimenti e di paure più o meno consapevoli, che rendono il rapporto meno soddisfacente. 
La terapia cognitiva può essere applicata con successo a queste problematiche, attraverso un percorso che mira a fornire ai coniugi gli strumenti per rendere le loro comunicazioni più chiare e ridurre la possibilità di fraintendersi. Inoltre sviluppa la capacità di risoluzione dei problemi concreti che emergono ogni giorno, fornendo delle linee guida che, se seguite, possono alleviare notevolmente il carico di stress a cui sono sottoposti i coniugi.

...riprendiamo da dove c'eravamo interrotti


E così, dopo i confetti arriverebbero i difetti. In realtà, i difetti ci sono sempre stati, e non erano nemmeno tanto nascosti. Cosa è cambiato, allora?
Ogni persona, nessuna esclusa, presenta una costellazione unica di caratteristiche che lo rendono attraente e piacevole ed altre che, al contrario, sono indesiderabili. L'idealizzazione dell'altro e la sopravvalutazione del potere del sentimento che proviamo ci porta a pensare che ogni difficoltà, anche quelle legate a difetti dell'altro, sarà facilmente risolta. Così, nel periodo dell'infatuazione, sviluppiamo desideri e aspettative sulla vita insieme: il nostro sarà un amore travolgente , sarà un matrimonio perfetto. 
Le aspettative col tempo si intensificano, anche a causa dell'investimento sempre maggiore di impegno e tempo nel rapporto. Così, col tempo, diventano pretese.
"Ho sempre immaginato che, una volta sposata, mia marito mi avrebbe aiutata nei momenti di difficoltà" diventa "Un marito deve aiutare la moglie ogni volta che ha bisogno, se la ama davvero".
"Vorrei che mia moglie mi mettesse sempre al primo posto" diventa "Una moglie deve mettere il marito sempre al primo posto".
"Mi conoscerà così bene che capirà da solo ciò di cui ho bisogno" diventa "Lui deve capire cosa deve fare senza che io glielo dica." 
I desideri diventano aspettative,  le aspettative diventano regole, le regole diventano diritti e quindi pretese. Il circolo vizioso è completo.


Leggimi nel pensiero, se mi ami!


Ogni membro della coppia è assolutamente convinto che le proprie aspettative e regole abbiano motivo di esistere, che siano ragionevoli e valide. Questo ha come conseguenza il fatto che ognuno di noi pretende che l'altro sappia ciò che desideriamo, senza che gli venga detto. Tutto resta a livello del pensiero. Ciò che viene detto è ben diverso.
Cosa pensa: "Lo sapevo! E' appena rientrato a casa e si è già seduto in poltrona! Non mi dà mai una mano. Eppure dovrebbe capire che bado alla casa tutto il giorno e che la sera mi serve un aiuto!". Cosa dice: "Sto sgobbando come una serva da stamattina e tu te ne stai in poltrona! Bene!"
Cosa pensa: "Non sopporto quel suo sguardo arrabbiato. Mi sono seduto in poltrona, e allora? E' solo per dieci minuti, poi mi alzerò. Accidenti, sono appena tornato da lavoro e dovrebbe arrivarci da sola che ho bisogno di rilassarmi un attimo." Cosa dice: "Ogni volta che metto piede in questa casa inizi a lamentarti! A volte vorrei non tornarci proprio, a casa!"
Cosa pensa: "Come al solito non gli piace la cena che gli ho preparato. Mai che dicesse che è buono e mi facesse un complimento. Eppure dovrebbe rendersi conto che ho passato ore a fare la spesa e a cucinare per preparargliela! Non apprezza mai quello che faccio per lui.". Cosa dice: "E allora? Non mangi il contorno? Dovrò buttare tutto. Tanta fatica per niente."
Cosa pensa: "Guarda quante cose ha preparato! Avanzerà tutto, dovremmo buttare buona parte del pasto. Eppure dovrebbe sapere che dobbiamo fare economia. Non sa proprio gestire i soldi.". Cosa dice: "Non vedi che sto scoppiando? Vuoi che mi senta male?"
Eppure dovrebbe capire, eppure dovrebbe accorgersi, eppure dovrebbe arrivarci da solo...però non capisce, non si accorge, non ci arriva da solo. I desideri non sono espressi, le richieste non sono formulate, le critiche non vengono fatte in maniera costruttiva.

E' possibile imparare a comunicare meglio? Sì, si può. Il primo passo è smettere di pensare che il proprio partner abbia poteri soprannaturali e che abbia il dono di leggere nel pensiero. 
Se desideriamo qualcosa, esprimiamolo. Se abbiamo richieste, facciamole. Se qualcosa non ci va bene, facciamolo presente all'altro con gentilezza.
"Tesoro, vorrei che mi aiutassi per la cena. Potresti apparecchiare?"
"Vorrei rilassarmi per un po' in poltrona. Sono molto stanco, ma tra dieci minuti lo faccio."
"Ti sono sempre piaciuti i funghi. Stasera non li mangi?"
"E' tutto buonissimo, ma è troppo. E' un peccato buttarli. Potresti provare a cucinare meno cose. Che ne pensi?"
Ancora una volta, sembra facile ma non lo è, soprattutto quando lo stress e la fatica legate al lavoro e alla gestione della casa e della famiglia si accumulano, insieme alle delusioni legate alla caduta dell'illusione di una vita coniugale sempre e comunque soddisfacente. Ma imparare a comunicare correttamente si può, in maniera calma, gentile, ma anche diretta e decisa.
L'abilità di formulare osservazioni che non contengano critiche, frecciatine, lamentele, accuse si acquisisce gradualmente. Come ogni abilità, si mette in pratica e si affina col tempo.

Proviamo a capirci


Abbiamo parlato negli articoli precedenti degli errori che commettiamo ogni giorno nell'interpretazione dei segnali provenienti dall'esterno, ma anche dall'interno, cioè dei nostri stessi pensieri. Se non riusciamo sempre ad interpretare correttamente le nostre stesse produzioni mentali, come potremmo essere certi di comprendere con sicurezza ciò che pensano gli altri?
"La terapia cognitiva ha mostrato che i coniugi possono imparare a essere più ragionevoli l'uno con l'altro adottando un atteggiamento di minor sicurezza in sé e maggiore umiltà quanto all'esattezza della loro lettura del pensiero altrui e alle conclusioni negative che ne traggono, verificando queste conclusioni e prendendo in considerazione qualche spiegazione alternativa della condotta del partner." (A. T. Beck, 1988)


Ognuno di noi, soprattutto quando è stanco e arrabbiato, è portato ad interpretare erroneamente il comportamento altrui, vedendo dietro di esso motivazioni malevole e crudeli. E' difficile mettere in discussione le nostre interpretazioni.
"E' appena tornato e si è già seduto in poltrona. Non gliene importa niente di me! E' il solito egoista."
"Ha già cominciato a lamentarsi. Non capisce che sono stanco! Non gliene frega niente, pensa solo a se stessa!"  
La stessa frase ha significati diversi per chi la pronuncia e per chi la ascolta. "Sto sgobbando come una serva da stamattina!" per la moglie significa "Vorrei che mi aiutassi" e per il marito "Si lamenta solo ed è egoista. Non riconosce che sono stanco anch'io".
"La causa del litigio non sono le parole o le azioni  in se stesse, ma il significato che a esse attribuisce l'altro" (A. T. Beck, 1988).
Nella comunicazione usiamo segni e simboli che vanno interpretati. Letti in un certo modo, assumono il significato di critiche, di attacchi, di lamentele. Insomma, alla base di tante incomprensioni vi sarebbe un atteggiamento cognitivo negativo.
"La forza del pensiero negativo è confermata da molte ricerche. Ciò che distingue i matrimoni in crisi da quelli felici non è tanto la mancanza di esperienze piacevoli, quanto piuttosto il gran numero di esperienze sgradevoli, o di quelle che sono interpretate come tali. (...) Sembra che sia più naturale ottenere la felicità se si riducono le esperienze e le interpretazioni negative." (A. T. Beck, 1988)

La terapia cognitiva si concentra proprio sulle distorsioni che impediscono ai coniugi di comunicare o di comunicare bene.

E se l'altro proprio non collabora?


La terapia di coppia, a dispetto del nome, non deve necessariamente essere applicata alla coppia. Se il proprio partner non ritiene sia necessario un percorso terapeutico, non vede alcun problema nel matrimonio e semplicemente non ha tempo e voglia di parteciparvi attivamente, il/la compagno/a può rivolgersi ad un terapeuta da solo/a. I cambiamenti nel suo modo di comunicare si rifletteranno sull'equilibrio di coppia, migliorando le interazioni col partner e creando un clima più disteso a casa.
E chissà che col tempo, di fronte a tanto impegno e buona volontà , anche il partner non cambi idea e decida di entrare in terapia.

Iniziamo allora a compiere i primi passi da soli. Potremmo sorprenderci e scoprire che qualcuno sta seguendo le nostre orme.


Libri consigliati:
Aaron Beck "L'amore non basta" Ed. Astrolabio